Ambiente

Quei disastri ambientali che Brescia non può ancora dimenticare

Nella Giornata mondiale dell'ambiente viene spontaneo chiedersi come è messa la situazione nella nostra provincia. E la risposta è: non bene
Campionamenti dell'Ersaf per rilevare Pcb nella zona di via Rose, vicino alla Caffaro - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it
Campionamenti dell'Ersaf per rilevare Pcb nella zona di via Rose, vicino alla Caffaro - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it
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Nella Giornata mondiale dell'ambiente, quest'anno dedicata al ripristino degli ecosistemi degradati, viene spontaneo chiedersi come sta l'ambiente in casa propria. E la risposta arriva altrettanto di getto: non bene. Questo perché Brescia porta con sé, oltre a una serie di casi virtuosi, anche storie di disastri ambientali di lunghissima data che ancora oggi aspettano di essere risanati.

I motivi di questi strascichi sono molti e variegati, intrecciano l'incuria dei privati, più interessati al profitto che alla salute del territorio e dei cittadini, la negligenza delle istituzioni, che in alcuni casi hanno tardato a prendere posizione, l'altalenanza dell'opinione pubblica, che si appassiona ai temi a fasi alterne, e tanti altre ragioni. Il tema di fondo, però, è che la provincia di Brescia è luogo di danni ambientali che necessitano provvedimenti ingenti. Da tempo. Ne raccontiamo cinque, cogliendo la ricorrenza di oggi per tenere alta l'attenzione su un tema su cui non dovrebbe essere abbassata mai.

1. La storia infinita di Caffaro che ormai compie vent'anni

Lo stabilimento Caffaro visto dall'alto - Foto Gabriele Strada /Neg © www.giornaledibrescia.it
Lo stabilimento Caffaro visto dall'alto - Foto Gabriele Strada /Neg © www.giornaledibrescia.it

C'è un anniversario pesante che ricorre proprio quest'anno. Per la precisione, il 13 agosto. Vent'anni fa esatti, nel 2001, Repubblica pubblicava infatti la prima inchiesta nazionale sulla Caffaro, intitolata eloquentemente «A Brescia c'è una Seveso bis». Prendendo le mosse dal libro, che sarebbe uscito quell'autunno, «Un secolo di cloro... e Pcb» dello storico e ambientalista bresciano Marino Ruzzenenti, l'articolo firmato da Giovanni Maria Bellu e Carlo Bonini raccontava la storia dei veleni poi legati a doppia mandata nell'immaginario collettivo allo stabilimento di via Milano: i policlorobifenili, protagonisti di un disastro ambientale che dura ancora oggi.

In realtà la storia di Caffaro comincia ben prima del 2001: fondata nel 1906 con il nome di Società Elettrica ed Elettrochimica del Caffaro, all'epoca l'azienda produceva soprattutto soda caustica, per poi introdurre la produzione di una serie di altri composti chimici, tra i quali il Pcb (fino al 1984, quando fu vietato per legge). L'inquinamento di Caffaro nasce dal fatto che la fabbrica utilizzava per la sua produzione l'acqua della falda che veniva rilasciata, intrisa di composti chimici, nelle rogge che scorrono verso sud, tanto che oggi i terreni e le acque sotterranee fino a Capriano del Colle risultano contaminati da Pcb, diossine, furani, mercurio, arsenico, tetracloruro di carbonio e cromo VI, entrati anche nella catena alimentare dei bresciani.

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CAFFARO, UN CASO IRRISOLTO

Le vicende di Caffaro sono lunghe e complesse, e mai concluse: il 9 febbraio 2021 la Procura di Brescia ha sequestrato il sito di via Milano nell'ambito di un'inchiesta per disastro ambientale dovuto al continuo inquinamento dell’impianto, dove sono stati registrati valori di cromo esavalente e mercurio ben al di sopra dei parametri di legge. In questi mesi Arpa ha rilevato altri livelli di sostanze nelle acque sotterranee oltre i limiti di legge, causati dallo scarso funzionamento della barriera idraulica. Per questa ragione si era pensato di avviare una gara secondaria a quella principale per la bonifica per il cosiddetto «progetto stralcio», che sarebbe servito per potenziare la barriera anti-veleni, ma alla fine si è optato per una gara unica, che dovrebbe essere bandita quest'estate. Significa che i lavori previsti dal Piano operativo di bonifica elaborato da Aecom, la multinazionale americana che si è aggiudicata l'appalto, non inizieranno per altri due anni. Lasciando passare questo ventennale con ancora troppo poco di fatto. 

2. Le tonnellate di scorie radioattive della Metalli Capra

Due silos della discarica di rifiuti speciali della Metalli Capra - Foto © www.giornaledibrescia.it
Due silos della discarica di rifiuti speciali della Metalli Capra - Foto © www.giornaledibrescia.it

È nota per essere la discarica radioattiva più grande d'Italia, per via delle oltre 80mila tonnellate di scorie metalliche a bassa radioattività per la presenza di cesio-137 stoccate da oltre tre decenni. Collocata alle pendici del Monte Netto, a Capriano del Colle, era proprietà della Metalli Capra s.p.a., una società di Castel Mella che si occupava dell’acquisto e della fusione del rottame di alluminio e che possedeva un complesso produttivo a Montirone, dedicato al trattamento di prodotto di scarto derivante dalla fusione. Una delle principali funzioni dell’impianto di Montirone riguardava proprio il trattamento del liquido di percolazione della discarica della società, di cui da anni c'è un urgente bisogno di bonifica. Almeno da quando nel 1989 all’interno dell'ex raffineria venne accidentalmente fusa una partita di alluminio proveniente dall’Europa dell’est, contaminata da cesio-137, che, secondo la procedura, fu stoccata nella discarica di rifiuti industriali del Monte Netto. Da allora gli abitanti della zona si trovano a convivere con 82.500 tonnellate di scorie radioattive all'interno di un parco regionale costellato da vigneti. Dopo il fallimento della società a scendere in campo per farsi carico della situazione è stata la Prefettura di Brescia. A giugno 2020 è stato approvato il progetto finale per la messa in sicurezza permanente del sito, ma ad oggi continuano a mancare i fondi necessari per la realizzazione del progetto, che è a marzo è di nuovo slittata. Il ministero dell’Ambiente ha stanziato un milione di euro per la bonifica, dopo che il sito era stato escluso nel 2019 dai contributi del Fondo di rotazione destinati alla bonifica di sei aree bresciane contaminate da scorie radioattive. Somma che però rappresenta solo una piccola parte dei 6,5 milioni necessari per tutti gli interventi.

3. I fanghi contaminati della Wte che hanno viaggiato da Brescia al Nord Italia

Lo spandimento dei gessi di defecazione (immagine simbolica) - Foto © www.giornaledibrescia.it
Lo spandimento dei gessi di defecazione (immagine simbolica) - Foto © www.giornaledibrescia.it

Alla ribalta della cronaca degli ultimi dieci giorni è sicuramente l'ultimo caso di disastro ambientale che vede protagonista l'azienda Wte srl, finita al centro di un'importante inchiesta della Procura di Brescia (che abbiamo ricostruito qui, dall'inizio).

In sintesi, i magistrati contestano alla società presideuta da Giuseppe Giustacchini la vendita di 150mila tonnellate di fanghi contaminati da metalli pesanti, idrocarburi e altre sostanze inquinanti, spacciati per fertilizzanti e smaltiti su tremila ettari di terreni agricoli nel Nord Italia. I reati di cui la Wte dovrà rispondere sono traffico illecito di rifiuti e gestione di rifiuti non autorizzata.

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Fanghi contaminati: le intercettazioni choc/1

Oggi ci sono quindici indagati a piede libero e 12 milioni di euro sotto sequestro, oltre a tre impianti di riciclaggio a Calcinato, Calvisano e Quinzano. I dati emersi dall'inchiesta, dopo le intercettazioni choc, sono impressionanti, per usare l'espressione della gip Elena Stefana:  «Nei campioni dei gessi in uscita dall’azienda e in spargimento - si legge nel testo dell'ordinanza - le sostanze inquinanti (fluoruri, solfati, cloruri, nichel, rame, selenio, arsenico, idrocarburi, zinco, fenolo, metilfenolo e altri) erano decine, se non addirittura centinaia di volte superiori ai parametri di legge». Il primo grave effetto della condotta della Wte è l’inquinamento del terreno agricolo, ma se lo spandimento fosse stato ripetuto nel tempo anche la falda acquifera avrebbe potuto subire danni pesanti.

4. La più grande pattumiera d'Europa, cioè le discariche nella Bassa Bresciana

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Un immondezzaio senza eguali: 25 milioni di mc di rifiuti in 40 km quadrati

Dagli anni Settanta la campagna a est di Montichiari e Calcinato, 37 mila abitanti complessivi, è diventata il luogo dove far convergere rifiuti di ogni natura: il 76% di quelli lombardi, secondo il rapporto sui rifiuti speciali pubblicato nel 2016 dall’Ispra, e di gran parte di quelli italiani. Tradotto in cifre, significa che in un’area di circa 40 km quadrati tra Montichiari, Calcinato e Bedizzole, sono stati interrati più di 25 milioni di metri cubi di rifiuti, a poche centinaia di metri dalle case. «La concentrazione di cave e discariche in quell’area è unica in Italia e credo in Europa - ha detto il direttore di Arpa Brescia Fabio Cambielli in un'intervista per un'inchiesta che abbiamo pubblicato a gennaio -. Metterne così tante una vicina all’altra è stato sbagliato, frutto di una politica che ha trascurato completamente la tutela ambientale». Cava Bonomi, cava Baratti, cava Accini e cava Bicelli sono solo alcuni dei nomi tristemente noti per avere compromesso un territorio e riempito al contempo le casse di privati e amministrazioni pubbliche, in modo peraltro lecito dal 1982, anno di emanazione del Dpr 915/1982 che per la prima volta ha normato nel nostro Paese lo smaltimento dei rifiuti speciali.

Le conseguenze sulla salute dei cittadini di queste situazioni lasciate a sé stesse per troppo tempo, però, si sono fatte sentire: secondo due studi specifici effettuati da Ats Brescia nel 2016 è emerso, in particolare nella frazione di Calcinato, un eccesso di mortalità nei maschi per tumori maligni di laringe, trachea, bronchi e polmoni, con un aumento, rispetto alla media di Ats di ben il 55%. Non solo, ma nell'area è stato registrato un eccesso di ricoveri per patologie respiratorie anche nei bambini. In più, non bisogna dimenticare che una discarica è per sempre: con il passare del tempo, un sito si deteriora e i rischi possono aumentare (per esempio, la possibilità di contaminazione della falda acquifera). Per questo i siti sono costantemente monitorati da Arpa, anche perché non si ha la certezza sulla durata degli impianti usati per contenere e isolare le discariche.

5. Il caso della ex Selca in Valcamonica

L'area della ex Selca a Berzo Demo - Foto Gabriele Strada /Neg © www.giornaledibrescia.it
L'area della ex Selca a Berzo Demo - Foto Gabriele Strada /Neg © www.giornaledibrescia.it

Infine il caso della ex Selca in Valcamonica, che tiene banco da circa un decennio, da quando cioè quest’azienda nel comune Berzo Demo che recuperava scorie di alluminio per trattarle e poi rimetterle sul mercato ha chiuso i battenti per fallimento. Ma per capire la sua storia in realtà bisogna partire da molto più indietro, in particolare dalla Ucar Carbon, che dal 1931 al 1984 ha estratto grafite in località Forno Allione, lasciando una montagna di scorie nella collina e una scia di lavoratori morti di cancro ai polmoni e alla gola. La società apparteneva alla Union Carbide, la multinazionale americana responsabile nel 1984 della strage di Bophal, in India. Alla Ucar subentrò poi la Graphtec e quindi la Selca di Flavio e Ivano Bettoni (finiti a processo e assolti prima per traffico internazionale di rifiuti e poi anche per omessa bonifica), che ottenne l’autorizzazione a trattare 150mila tonnellate di scorie pericolose nel 2002. Nel 2004 arrivò un primo sequestro della procura, ma nel 2007 la ditta ottenne dalla Regione un ampliamento dei rifiuti da trattare, tra cui 23mila tonnellate di celle elettrolitiche contenenti cianuri e floruri arrivati dalla Tomago Aluminium di Sidney. Poi nel 2010 il fallimento, il passaggio a una società inglese e il subentro del gruppo Catapano di Napoli.

Dopo una serie di travagliate vicende giudiziarie, a novembre 2020 è arrivata una svolta: la giunta regionale ha votato l’adesione all’accordo di programma del comune di Berzo Demo per la bonifica e il recupero ambientale dell’area, e ha stanziato sei milioni di euro per mettere in pratica il progetto. Soldi necessari per attuare il maxi piano che prevede anche l’abbattimento degli immobili presenti e la costruzione di nuovi capannoni e uffici, dove, entro la fine del 2021, porterà una parte delle sue lavorazioni la Lucchini Rs di Lovere. Intanto a marzo di quest’anno il Tavolo delle organizzazioni ambientaliste della Valcamonica ha lanciato una petizione online per sollecitare la bonifica dei siti individuati da Arpa come contaminati: tonnellate di scorie, di cianuri e fluoruri, stoccati nell’area industriale tra il fiume Oglio e il torrente Allione, che per anni hanno rilasciato veleni nei corsi d’acqua circostanti.

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