Omicidio Bozzoli: «È stato Giacomo, la logica è più forte di tutti i dubbi»

Per la Corte d’assise ha girato le telecamere, è tornato per controllare ha cercato di depistare
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OMICIDIO BOZZOLI: "E' STATO GIACOMO"
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Due certezze ha fornito il processo. La prima: Giacomo Bozzoli detestava suo zio Mario e voleva liberarsi di lui, per ambizioni personali e questioni ereditarie. La seconda: la fumata anomala sprigionata dal forno grande della fonderia di famiglia a Marcheno, che alle 19.15 dell’8 ottobre di sette anni fa mandò in blocco gli aspiratori, altro non è che la prova dell’omicidio del 50enne imprenditore valtrumplino e la spiegazione della sparizione del suo cadavere.

Per arrivare alla condanna all’ergastolo del 37enne nipote finito al centro del processo che si è concluso lo scorso 30 settembre con il più pesante dei verdetti la Corte d’assise è partita da qui. Per colmare il cratere al centro della ricostruzione, per bypassare l’assenza del cadavere, dell’arma del delitto e della sua dinamica, i giudici hanno fatto ricorso ad un esperimento giudiziale - che ha riportato il forno della Bozzoli al centro del delitto - e a diverse prove logiche, che hanno dato vita «ad una trama organica - ha scritto il presidente Spanò - coerente e convincente», e in grado di resistere al dubbio ragionevole che avrebbe imposto l’assoluzione.

Le telecamere

Dopo aver escluso l’allontanamento volontario e il suicidio di Mario Bozzoli, vista la presenza dei suoi effetti nell’armadietto e l’assenza di ragioni per fuggire o peggio ancora uccidersi, dopo aver affermato che fu assassinato attorno alle 19,15 di quella sera, nei pressi del reparto di fusione, per dimostrare sia stato il nipote i giudici partono dalle telecamere. Dalla circostanza che non fossero puntate laddove avrebbero dovuto esserlo di default, ma girate su «punti morti» della fonderia in epoca prossima alla morte di Bozzoli.

La gestione dell’impianto era esclusivo appannaggio di Giacomo Bozzoli e di suo fratello. Solo loro - si legge in sentenza - avrebbero potuto girarle perché non vedessero.

I depistaggi

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Le tappe del mistero di Marcheno

Secondo la Corte d’assise l’incrocio dei dati inconfutabili emersi a dibattimento con le versioni di imputati o possibili concorrenti nell’omicidio dà conto di un tentativo di depistaggio. Tutti, a partire da Giacomo, sostengono di aver visto Mario «con la felpa sulle spalle» andare verso lo spogliatoio dopo aver parcheggiato il muletto. «Un loop con modalità copia incolla talmente ridondante - scrive Spanò - da segnalare la presenza di un artificioso allineamento preconfezionato».

Se gli addetti ai forni (Ghirardini e Maggi) non hanno spiegato cosa abbia provocato la fumata delle 19.18 di quella sera, altri testimoni hanno cercato «di allontanare Mario - prosegue il presidente - dalla stessa fumata, anticipando o spostando la sua scomparsa». Anche Giacomo dice di non aver più incrociato lo zio dopo le 19.08 (dieci minuti prima dell’anomalia). Per i giudici invece lui e Mario si sono trovati a tu per tu nel momento e nello spazio clou del giallo.

«È Giacomo stesso - motiva Spanò - ad affermare di essere sceso dall’ufficio sovrastante il reparto fusorio più o meno alle 19.16, in orario pressoché coincidente con quello della fumata anomala e della scomparsa dello zio».

Inversione pericolosa

L'imputato Giacomo Bozzoli in aula, durante il processo per l'omicidio dello zio - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it
L'imputato Giacomo Bozzoli in aula, durante il processo per l'omicidio dello zio - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it

Contro Giacomo - segnala la Corte d’assise - c’è anche la sua decisione di fare inversione ad U con la sua Porsche Cayenne e infilare in senso opposto il cancello che, la sera del giallo, si era lasciato alle spalle pochi minuti prima. Giacomo affermò di averlo dovuto farlo per dire al fratello Alex, che aveva inutilmente tentato di chiamare, di mettere in produzione il «Bral commerciale». Oltre a non esserci ordini di quel tipo di lega a giustificare il repentino dietrofront, il presidente segnala contraddizioni e smentite emerse sul punto «Bral» e conclude spiegandosi il ritorno in fonderia di Giacomo in altro modo.

«Vi è da ritenere che l’imputato, nel tornare a casa dopo la scomparsa dello zio, si sia allarmato per la mancata risposta del fratello con riferimento ad un argomento inconfessabile - scrive il presidente - ha dunque compiuto la repentina inversione di marcia per verificare se in fonderia fossero insorti contrattempi che potevano mettere a rischio ciò che aveva programmato».

Il suicidio parlante di Ghirardini

Giuseppe Ghirardini, nel riquadro, fu stroncato da una capsula di cianuro - © www.giornaledibrescia.it
Giuseppe Ghirardini, nel riquadro, fu stroncato da una capsula di cianuro - © www.giornaledibrescia.it

Nelle 270 pagine di motivazioni della sentenza di primo grado il presidente della Corte Spanò dedica un capitolo a quello che definisce: «Il suicidio parlante di Ghirardini». Così come lo aveva etichettato anche il pubblico ministero Silvio Bonfigli. «Il fatto che il suicidio sia avvenuto a poca distanza temporale dalla scomparsa di Mario Bozzoli ed in concomitanza del giorno in cui doveva essere sentito dai carabinieri rende inevitabile cogliere un collegamento tra i due eventi» si legge nelle motivazioni.

«Il gesto estremo, se posto in relazione al turbamento e all’insonnia provati dopo la scomparsa di Mario Bozzoli rende palese il travaglio da lui vissuto per ragioni di tormento interiore, evidentemente colto anche da Maggi che aveva avuto modo di parlare con lui il giorno il 9 ottobre 2015. Ciò spiega - proseguono i giudici - il tentativo di Maggi di avvicinarlo la notte del 15 ottobre onde evitare che l’accoramento tracimasse in un crollo psicologico, travolgendo anche le altre persone presenti in fonderia la sera del fatto» scrive la Corte.

La famiglia di Ghirardini non ha mai creduto al suicidio, ma per la Corte d’Assise di Brescia non ci sarebbero dubbi sulla volontarietà dell’atto. «È il gesto di disperazione di una persona in preda al senso di colpa e alla vergogna per la gravità dell’atto commesso, impaurita per l’inaspettato clamore che la vicenda aveva scatenato e dalla massiccia presenza di forze dell’ordine e volontari a Marcheno, proprio nel giorno in cui aveva deciso di togliersi la vita». Poi nella sentenza un passaggio dal peso notevole. «Ovviamente un rimorso di tale portata - scrive il presidente Spanò - non poteva essere stato provocato da quello che aveva visto, ma da quello che aveva fatto».

In casa dell’uomo vennero trovati 4.400 euro in contanti con banconote emesse da una banca austriaca. «Il denaro ricevuto per il tradimento della persona amica - si legge - finisce così per ricalcare inevitabilmente scenari evangelici e, per quanto attiene specificamente al presente processo, comprova che l’operaio ha agito su mandato di un’altra persona».

Le intercettazioni ambientali del 15 ottobre 2015

«Le intercettazioni ambientali registrate nella tarda serata del 15 ottobre comprovano che Oscar Maggi e Aboagye Akwasi, nei giorni successivi alla scomparsa di Mario Bozzoli, nel percepire il tormento del Ghirardini, temevano che questi, non sufficientemente informato sullo sviluppo degli eventi o in un momento di cedimento psicologico, potesse lasciarsi andare con i carabinieri a rilevazioni pregiudizievoli» scrive la Corte d’Assise di Brescia nelle motivazioni. Nel mirino finisce il dialogo tra Oscar Maggi e il collega Abu: «Se dice qualcosa di sbagliato siamo rovinati. Ci incolpano noi. Se Beppo sbaglia a parlare danno la colpa a noi» dice in auto Maggi parlando con Abu dopo un interrogatorio ad ottobre 2015.

La Corte scrive: «Il contenuto della conversazione è un macigno destinato a influire sulle sorti del processo nella prospettiva dell’accusa». Per Maggi e Abu i giudici hanno trasmesso gli atti in Procura ipotizzando il reato di concorso in omicidio. «Se Ghirardini avesse raccontato "qualcosa di sbagliato", avesse cioè smentito le tesi innocentiste versate da Maggi e Aboagye ai carabinieri, avrebbe compromesso anche la loro posizione dato che i due colleghi, pur non avendo materialmente commesso l’omicidio, non solo erano al corrente degli accadimenti, ma vi erano anche personalmente coinvolti, il Maggi - quantomeno - per il previo assenso dato all’uccisione e per il fattivo contributo offerto alla distruzione del cadavere. Aboagye - quantomeno - per aver taciuto ciò che aveva visto ed aver cercato di depistare le indagini».

La testimonianza di Jessica Gambarini

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La testimonianza di Jessica Gambarini, ex fidanzata di Giacomo

Tra le prove contro Giacomo Bozzoli, si legge nella motivazione del suo ergastolo, ci sono le parole della sua ex Jessica Gambarini. La mattina del 10 ottobre, due giorni dopo la sparizione di Mario Bozzoli, la donna si presentò dai carabinieri e disse loro che «Giacomo le aveva esplicitato più volte il proposito di uccidere lo zio, chiedendole altresì di collaborare fattivamente nel progetto omicida fornendogli un alibi» in particolare transitando con la sua auto in autostrada e andando a dormire in casa sua in occasione del delitto. Per la Corte la giovane era «risentita nei confronti di Giacomo e per questo ha condito il suo racconto con elementi non veritieri». Ma «le falsità che ha detto sono su elementi periferici rispetto alla scomparsa di Mario Bozzoli».

La «prontezza» con la quale ha contattato gli inquirenti subito dopo aver appreso quanto accaduto in fonderia non «può trovare spiegazione - scrive Spanò - in un conato di fantasiosa improvvisazione alimentato da spirito di vendetta». E ancora: «Se, a fronte della notizia fornita dalla madre - secondo cui lo scomparso era Adelio e non Mario - l’ha invitata a compiere le verifiche che avevano poi confermato la fondatezza della sua intuizione, ciò è avvenuto poiché era in possesso dall’inizio di informazioni che le consentivano di decodificare correttamente l’accaduto».

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