L’Italia, un Paese impreparato alle sfide del presente

Da tempo sapevamo che la nostra crescente ignoranza si accompagnava alla nostra bassa produttività, fonti della nostra fatica ad innovare nei mondi digitali e sostenibili, il Censis lo conferma. Si rileva bassa scolarizzazione, alti abbandoni, basso livello di laureati, bassi livelli di specializzazione del lavoro e dunque profili scarsi e bassi salari. Una tesi che porta alla seguente conclusione: abbiamo vissuto di rendita arretrando negli ultimi 20 anni mentre il mondo è volato nelle tecnologie, nell’innovazione, nella qualificazione del lavoro e nei tassi di crescita della produttività.
Siamo la seconda manifattura d’Europa ma ultimi per produttività, per laureati e per scolarizzazione media, tra gli ultimi nel tasso di occupazione di giovani e donne quindi lanciando un «allarme educativo e demografico» con aumento dei contratti precari. Siamo «ignoranti e culturalmente impreparati» - dice il Censis - che conferma quanto rilevato nei test Invalsi: ignoranti in storia e letteratura e debolissimi nelle materie Stem di cui l’industria ha bisogno. Questo ci indebolisce in termini di efficienza, produttività e competitività.
Non stiamo solo «galleggiando» ma arretriamo nei potenziali imprenditoriali, manageriali, di innovazione e qualità del lavoro. Non siamo più la prima palestra imprenditoriale d’Europa, rincorriamo e ci indeboliamo nelle capacità competitive dei nostri sistemi di impresa che faticano a trovare le risorse tecniche e manageriali per competere a livello globale e dunque scendiamo nei ranking internazionali.
Una società che cambia con il 65% delle famiglie costituite da «single», frantumandosi dunque il collante fondamentale della solidarietà della società italiana degli ultimi 150 anni che ne ha fatto la forza industriale primaria spingendola verso individualismo e «grandi solitudini» oltre che verso invecchiamento e denatalità (48 anni l’età media). Il 57% degli italiani si sente minacciato dagli stili di vita dei migranti ma l’industria e i servizi sociali ne hanno bisogno.
Il 55% delle famiglie dichiara risparmi in diminuzione nel biennio. Il tasso di occupazione aumenta ma rimane per il 9% sotto la media europea e siamo ultimi con una produzione manifatturiera che nell’ultimo biennio è scesa del 3,4% e invece un aumento del turismo del 19% nell’ultimo decennio. Se ci stiamo deindustrializzando dovremmo agire e presto per contrastare tale processo.
Se poi - secondo il Censis - l’80% della popolazione «non crede nella democrazia» si potrebbe dedurne che si sta formando una «riserva» enorme per un partito reazionario di massa e disposto a credere all’«uomo (o donna) della provvidenza» ricordando Weimar? Ecco perché l’Italia non cresce (a partire dall’incrocio vizioso tra fattori culturali, economici e sociali) ma «galleggia» con una riduzione del reddito lordo pro-capite reale del 7% negli ultimi 20 anni e con un blocco dell’ascensione sociale. Dunque l’Italia sta peggio e infatti aumenta la povertà (assoluta e relativa) - dice il Rapporto della Caritas 2024 - arretrando certo non nell’ultimo biennio ma da almeno un decennio se non da vent’anni.
Ma il numero dei miliardari aumenta e i primi 6 detengono l’8% del PIL e con diseguaglianze che non sono più solo economiche e sociali ma anche educative, sanitarie e ambientali. Esplodono le code per gli esami negli ospedali (anche della Lombardia) e 4,5 miliardi persone rinunciano alle cure mediche. Evidente dunque lo scollamento robusto tra narrazione di Governo e tendenze di lungo periodo anche se certo le responsabilità non si possono ricondurre esclusivamente al Governo Meloni.
Aumenta l’occupazione ma quella povera (poor workers), infatti si contrae il monte ore lavorate deprimendo la crescita della produttività che trascina poi il reddito lordo verso il basso e dunque i salari con il potere d’acquisto taglieggiato da una inflazione ancora sensibile. Però aumentano i dividendi degli azionisti di Stellantis ma in presenza di vendite che crollano e in un settore come l’automotive che sarà la prova del fuoco della nuova commissione di Ursula von der Leyen. Noi dunque non andiamo «bene» non semplicemente perché i nostri competitors (Francia e Germania) vanno male, ma perché ci stiamo fermando nonostante la «spinta» dei 200 miliardi del Pnrr che andranno a chiudersi nel 2026 e nonostante il «distacco» del Patto di Stabilità che ripartirà nel 2025.
Dopo il 2026 cosa succederà in una Europa fragile, con la democrazia sotto attacco e un Trump che vorrebbe lanciare dazi «contro tutti» per proteggere America First anche verso l’Europa? Peraltro in un contesto di forte incertezza e conflitti globali nel quale il motore europeo degli ultimi 75 anni franco-tedesco si è fermato, frammentato e depotenziato, purtroppo senza sostituti né affidabili né credibili e con destre antisistema e filo-russe che guadagnano consensi.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato
@News in 5 minuti
A sera il riassunto della giornata: i fatti principali, le novità per restare aggiornati.
