Caffaro, sei mesi dopo il sequestro: cosa è successo finora

Dal 9 febbraio, non c'è ancora un'intesa sulla questione ambientale. Tutti i nodi ancora aperti sul tavolo del Sin
Il sito Caffaro - Foto © www.giornaledibrescia.it
Il sito Caffaro - Foto © www.giornaledibrescia.it
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Quando hanno sentito il frastuono meccanico e totalizzante dell’elicottero sopra di loro era un martedì. Alle 7.10 in punto un plotone di auto, accompagnato dal suono pungente e tachicardico delle sirene asincrone, ha invaso il piazzale al quale tutti, passandoci accanto, buttano quasi istintivamente uno sguardo. Una paura terribile per i quindici operai che si trovavano all’interno e una scena da set cinematografico americano per chi all’esterno, ammutolito, osservava dal marciapiede. Martedì 9 febbraio 2021: esattamente sei mesi fa, su ordinanza del gip Alessandra Sabatucci, andava in scena il sequestro preventivo dell’epicentro del Sito di interesse nazionale Brescia-Caffaro (Sin). Esattamente sei mesi fa, il procuratore capo Francesco Prete ha usato parole alle quali nessuno - pronunciate così ad alta voce e con i riflettori dei media accesi - è rimasto indifferente: «Caffaro è un carcinoma nel cuore della città. E va estirpato». Nove agosto 2021: esattamente sei mesi più tardi, sul versante ambientale, quasi nulla è cambiato di una virgola.

Com'è la situazione ora

Quasi nulla, si diceva, è mutato sul fronte ambientale: il sequestro è ancora in vigore, la barriera idraulica (quel sistema di pozzi che funge da «diga anti-veleni») è ancora acciaccata e mal messa, i valori di Pcb e di cromo esavalente sono ancora inequivocabilmente fuori legge (e non certo di poco). Cosa è cambiato, dunque? A livello amministrativo alcune novità ci sono. Solo che si consumano con la proverbiale lentezza burocratica. In primis si è insediato il nuovo commissario straordinario per il Sin: il 10 luglio, Mario Nova ha raccolto ufficialmente il testimone che fu di Roberto Moreni.

No: l’iter non si è sbloccato in un lampo, ovviamente. Perché (e qui sta la seconda novità) ora tutto è legato a doppio filo alla trattativa intavolata tra la Caffaro Brescia (l’azienda che sta mantenendo in funzione la barriera idraulica attraverso i pochi operai rimasti in servizio e che nulla c’entra con la vecchia Caffaro Chimica) e la Procura. Secondo quest’ultima, infatti, sarebbe spettato, e spetterebbe ancora, alla ditta guidata da Donato Todisco mettere in sesto il sistema di pozzi che arranca ormai da troppo tempo, al punto che - proprio per questo - ha sequestrato preventivamente alla società oltre 7 milioni di euro (7.762.410 per l’esattezza): la cifra che, a parere dei giudici, avrebbe dovuto essere investita negli anni per garantire il corretto funzionamento del sistema di filtraggio degli inquinanti con l’annessa manutenzione degli impianti.

L'intesa sul tavolo: due nuovi pozzi a sud

A che punto siamo? Il dialogo - come confermato da entrambe le parti - è avviato, ma ancora in corso. L’obiettivo è «arrivare a una soluzione comune», ma sta di fatto che l’intesa non è ancora stata raggiunta. Ciò a cui si sta lavorando, comunque, è un progetto che prevede la realizzazione, a sud dello stabilimento, di due nuovi pozzi che possano fare da «argine» e impedire così, attraverso il loro funzionamento, che le acque intrise di veleni possano viaggiare ulteriormente e disperdersi. Se su questa ipotesi si trovasse effettivamente l’intesa, una volta attuata e verificata la sua efficacia, si potrebbe tirare un sospiro di sollievo, almeno per il periodo che separa il sito dalla bonifica complessiva. Sì, ma nel frattempo? L’ultimo sequestro è andato in scena una manciata di giorni fa.

Il 5 agosto Arpa e Procura hanno individuato 350 metri cubi di macerie edili ad altissima concentrazione di Pcb dove un tempo sorgeva il reparto di produzione del Cloratonil, probabilmente frutto dello smantellamento del capannone avvenuto nel 2019 ad opera della Csa di Rovigo, che pure stava di casa all’interno dell’area incastrata tra le vie Nullo, Milano e Morosini. Per il resto, per ora la barriera idraulica di quel «carcinoma nel cuore della città» che «va estirpato» continua a funzionare male, il cromo esavalente è ancora nel sito (per fortuna, secondo i rilievi dell’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente, non ha scavalcato il perimetro della cittadella industriale) e i Pcb continuano a fuoriuscire. Esattamente come sei mesi fa.

Pcb fuori limite del 500%

Parallelamente è proseguita anche l’attività di analisi sul versante Pcb. L’Arpa di Brescia ha messo sotto esame lo scarico che fa confluire le acque nella roggia Fiumicella: stiamo parlando, per l’esattezza, di 13 milioni di metri cubi all’anno. Qui la Provincia, all’interno dell’Autorizzazione integrata ambientale (Aia), ha stabilito un limite massimo medio annuo relativo alle concentrazioni di Pcb. Limite che, negli ultimi due anni, è stato ampiamente superato. E che testimonia, anche in questo caso, come l’inquinamento sia di fatto persistente. Nella relazione del 31 marzo scorso si legge: «Nell’anno 2019 la concentrazione di Pcb nello scarico S2 ha superato di oltre il 500% il limite consentito nella roggia Fiumicella. Se si confronta questo valore con gli anni 2013 e 2014 si vede chiaramente che la situazione attuale si è aggravata», passando da 0,02 a 0,11 microgrammi per litro. Altrettanto chiaro è il quadro delineato dall’Arpa come epilogo del monitoraggio condotto nel 2020: la concentrazione media annuale dei Pcb rilevata allo scarico Caffaro, che immette le acque di falda, emunte dalla barriera idraulica, nella roggia Fiumicella è risultata più del doppio rispetto al limite imposto dalla Provincia nell’Aia.

La denuncia dell'Arpa nel 2014: «Cromo VI, sorgente ancora attiva»

A cercare di accendere i fari sul fatto che nel sito l’inquinamento fosse «ancora in corso» e che, quindi, non ci si fermava alla stratificazione pregressa, è stata l’Arpa. Il dipartimento di Brescia, oggi diretto da Fabio Cambielli, ha cercato di allertare ogni organismo (politico, amministrativo, tecnico) in ogni modo negli ultimi sette anni, dopo che - per mesi - aveva studiato l’andamento delle concentrazioni del cromo esavalente, riscontrando dei picchi anomali. Che nel sito ci fosse un «focolaio» di cromo VI non è cioè una sorpresa di quest'anno. Le analisi condotte prima del 2014 erano sì fuori norma, ma non come nei riscontri degli ultimi sette anni. Tradotto in cifre: i valori noti si aggiravano attorno ai 100 microgrammi/litro, contro i 1.558 µg/l attuali. Quindici volte in più rispetto ai dati storici.

  • Le perdite di cromo esavalente da un serbatoio della Caffaro - Foto © www.giornaledibrescia.it
    Le perdite di cromo esavalente da un serbatoio della Caffaro
  • L'interno dello stabilimento Caffaro - Foto © www.giornaledibrescia.it
    Le perdite di cromo esavalente da un serbatoio della Caffaro

Ciò che è emerso dal modello idrogeologico creato dal team dell’Arpa è supportato da dati consolidati e verificati su più indagini: «I disallineamenti tra il cromo e l’altezza della falda ci hanno spinto a condurre analisi più puntuali. Da diversi anni questa discrepanza viene sottolineata nelle relazioni relative al monitoraggio delle acque sotterranee, un’attività di controllo continua che ha portato alla luce questa situazione di anomalia - spiegavano allora i tecnici del dipartimento di via Cantore, ovvero l’allora direttore Gianpietro Cannerozzi, Enrico Alberico, Rocco Bortoletto e Cassio Umberto -. L’andamento molto altalenante del cromo è discorde rispetto a quello della falda». Da qui è partita l’ispezione più accurata: «L’attività è stata prolungata nel tempo. Tutte le evidenze sono state segnalate agli enti: sappiamo che da questi serbatoi esce del cromo. Sono state rintracciate delle sorgenti che contribuiscono ancora oggi alla contaminazione. E si tratta di sorgenti primarie, ovvero attive». Parole che oggi, a distanza di sette anni dal primo Sos e di sei mesi dal maxi sequestro, risuonano ancora più pungenti.

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