Referendum, i partiti aprono il processo al quorum

Neanche il tempo di riportare gli scatoloni nei magazzini, che era già partito il processo al quorum. La polemica è passata in men che non si dica dai temi al meccanismo, con le forze politiche scattanti a fornire propositi in ordine sparso. Orfani di entusiasmo popolare, i partiti hanno immediatamente trovato un nuovo campo di battaglia: le regole del gioco. C’è chi vorrebbe abbassare la soglia minima del 50%+1, chi ne auspica l’abolizione, chi punta al raddoppio delle firme, chi propone di tenere tutto com’è ma istituzionalizzando il criterio dell’election day.
Efficacia
Forza Italia propone di complicare ancora di più la vita ai promotori referendari. Al Senato ha presentato un disegno di legge per raddoppiare le firme necessarie (da 500mila a un milione) e del numero di Consigli regionali (da 5 a dieci) per invocare un referendum abrogativo. Una mossa che sa più di muro contro la democrazia diretta che di apertura: più firme, meno referendum, meno fastidi per i partiti al governo. Il senatore Adriano Paroli la spiega così: «È uno strumento voluto dai padri costituenti per intervenire sulla legislazione quando ci sono quesiti che toccano l’interesse e la sensibilità dei cittadini, non deve quindi essere impossibile raccogliere le firme, però serve più senso di responsabilità».
Per il segretario provinciale di Fratelli d’Italia Diego Zarneri «il nodo vero non è tecnico, è politico e sostanziale: quando i referendum trattano temi ideologici e lontani dalla vita quotidiana degli italiani, è naturale che la partecipazione crolli. Referendum su temi identitari, portati avanti da minoranze rumorose, non possono sostituire il lavoro del Parlamento né risolvere i problemi reali di famiglie, imprese e territori. Modificare il numero di firme o il quorum è un modo per evitare di guardare in faccia la realtà: la gente non vota perché non si riconosce nelle domande poste».
Differente la visione della Lega: «Credo che il referendum abrogativo vada rivisto – conferma l’on. Simona Bordonali –. Negli ultimi anni sono state introdotte modifiche che hanno semplificato la raccolta delle firme. Questo ha reso molto più facile attivare un referendum, ma non ha aggiornato il resto del sistema. Serve una riflessione seria, per garantire equilibrio tra partecipazione e responsabilità, magari partendo dal numero delle firme necessarie.

Centrosinistra
Se il centrodestra ha giocato la carta dell’astensione per boicottare i quesiti, il centrosinistra ha puntato sul referendum anche per testare la propria capacità di mobilitazione, (ri)scoprendo che l’elettorato è purtroppo ormai allergico a tutto ciò che sa di politica. L’on. Gian Antonio Girelli (Pd) lo ha ben presente: «Rivedere le regole elettorali è sempre delicato: deve essere fatto con la massima prudenza e capacità di confronto. Ma sui referendum è indubbio che una riflessione vada fatta. Sia sul numero di firme, perché l’Italia ha 10 milioni in più di popolazione rispetto all’entrata in vigore della Costituzione, sia sul quorum, perché la partecipazione al voto è crollata» Ma per Girelli, più in generale, «bisogna restituire al Parlamento il proprio ruolo di produrre norme capaci di rispondere ai bisogni della società. I referendum dovrebbero generare confronto, non scontro politico».
Forse – è l’analisi consegnata dal segretario provinciale di Sinistra italiana Luca Trentini – sarebbe opportuno aprire una riflessione sull’opportunità dello strumento referendario quando lo si usa per i diritti delle minoranze». Più netta la posizione di +Europa, con Davide Bresciani, alla regia del partito bresciano, che aveva già sposato la linea del leader nazionale Riccardo Magi (spoiler: ok all’aumento delle firme, ma solo a patto che si cancelli il quorum): «Il quorum del 50%+1 è diventato un freno alla volontà popolare. Presenteremo una proposta di legge» rimarca Bresciani.
C’è però il rovescio della medaglia: senza quorum, il rischio è che minoranze organizzate possano imporre decisioni a un’intera nazione. Ecco (anche) perché l’on. Fabrizio Benzoni rilancia la proposta di Azione ferma alla Camera: «Un election day nazionale che raggruppi tutte le elezioni dell’anno».
Ghosting
Certo è che questa tornata apre ad almeno due considerazioni sul voto popolare.
La prima: se anche questioni concrete e sentite come lavoro e cittadinanza falliscono per scarsa partecipazione, è evidente che serve una profonda riflessione sulla democrazia diretta.
La seconda: i partiti hanno già voltato pagina, tra chi chiede più firme (per frenare) e chi vuole meno quorum (per semplificare), mentre nel mezzo resta il cittadino. Ma dimezzare le firme o abbassare il quorum non basterà se non si ricostruisce il legame tra istituzioni ed elettori. L’apatia delle urne è la crisi di un’idea: quella che la democrazia diretta possa supplire ai vuoti lasciati dai partiti. Il ghosting dei seggi, con il 70% della platea elettorale rimasta comodamente a casa l’8 e il 9 giugno, è il verdetto di una crisi non solo di partecipazione ma anche di senso.
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