Referendum, le opposizioni restano divise e ora guardano al 2027

Il quorum ai cinque referendum abrogativi dell’8 e 9 giugno non è stato raggiunto, quindi formalmente il discorso si chiude così. Inoltre, il governo non può che rallegrarsi perché la spallata non c’è stata: un’affluenza intorno al 40%, pur non sufficiente a validare la consultazione, avrebbe rappresentato un segnale d’allarme nei confronti del centrodestra, indicando una mobilitazione ben più ampia dei confini delle opposizioni (le quali, quindi, in quel caso avrebbero potuto rivendicare la conquista di un consenso forse spendibile anche alle prossime politiche).
Tuttavia, se sul piano politico non si poteva immaginare un esito diverso, su quello dei numeri dell’affluenza e del rapporto fra sì e no nei vari quesiti si può impostare un ragionamento molto più complesso e articolato, anche perché gli stessi promotori dell’iniziativa avevano caricato di significati molti degli aspetti in gioco. Iniziamo dalla consistenza delle forze in campo: fra l’ampio fronte del sì e il piccolo ma variegato (sui singoli quesiti) fronte del no, aggiungendo il «ni» del M5s sulla cittadinanza agli stranieri si partiva da un potenziale di circa quattordici milioni e mezzo di votanti su un corpo elettorale che oscilla fra i 46 milioni della sola Italia e i cinquanta dell’intero corpo elettorale (all’estero non vota quasi nessuno, quindi è probabile che se anche sul territorio nazionale l’affluenza fosse stata del 50,1% il non voto dei milioni di connazionali che votano altrove avrebbe vanificato il quorum).
Alla fine, sono mancati all’appello circa quattrocentomila voti, segno che i partiti coinvolti nella battaglia per il sì o per il no sono stati in qualche modo seguiti dai loro elettori (con qualche eccezione, che vedremo). La correlazione fra l’affluenza nelle regioni e i voti ai partiti «referendari» è intorno allo 0,75 (il valore oscilla fra uno – massima coincidenza – e meno uno, massima discordanza); non solo, il Pd ha indici ancora più alti, il che fa pensare che il partito della Schlein sia stato molto mobilitato non solo dal lato di chi votava come la segretaria (tutti sì) ma anche dei riformisti che avevano indicato la preferenza per alcuni no in tema di lavoro.
Differente, invece, la situazione del M5s, che appare in linea, al Centronord, con l’affluenza degli altri partiti che avevano invitato ad andare alle urne, ma non al Sud, dove praticamente non c’è relazione fra voto M5s 2022 e voto referendario 2025: in pratica, può darsi che le differenze negative di affluenza rispetto ai dati attesi in Campania, Puglia, Calabria e Sicilia siano proprio dovute alla defezione di parte dell’elettorato pentastellato (che nelle regioni in questione è molto più numeroso in percentuale rispetto al dato nazionale). Poi c’è la questione del «referendum nel referendum», cioè il confronto fra Schlein, Conte e Avs da una parte (Cgil inclusa) e riformisti del Pd più centristi (Più Europa, Azione, Italia viva e Noi moderati) dall’altra. I no, cioè i voti per mantenere le leggi sul lavoro, sono di gran lunga inferiori rispetto a quelli ottenuti dai partiti alle scorse politiche e alle Europee, segno che forse chi difendeva il Jobs Act ha dato la partita per persa e non ha votato o che qualche elettore riformista ha selettivamente scelto qualche sì in più del previsto.
Per la segretaria del Pd, insomma, è una mezza vittoria, ma di scarso valore se accompagnata al fatto che l’affluenza alle urne non è stata alta come desiderato e che c’è un dato preoccupante, quello sulla cittadinanza. Conte aveva saggiamente lasciato libertà di scelta ai pentastellati sull’immigrazione, perché il M5s al Sud ha una base molto più vasta che altrove e forse molto più eterogenea, comprendente svariati elettori usciti dal centrodestra nel 2011 e mai più rientrati. Questa ala, che si trovò a suo agio nel governo Conte uno (gialloverde) approvò le dure politiche sull’immigrazione di quell’Esecutivo e oggi si ritrova verosimilmente in quell’alta percentuale di «no» al quesito alla concessione più rapida della cittadinanza italiana agli stranieri.
Quel dato è una mina che può mettere in pericolo il futuro del «campo largo» perché i «no» sono stati troppi anche considerandoli tutti del M5s (cosa impossibile): se su temi come il lavoro i centristi si allontanano (ma con minor seguito del previsto) sull’immigrazione la divaricazione è forte. In pratica la spaccatura è tale da far pensare che, se avesse votato anche l’elettorato di centrodestra avrebbero vinto i «no», ma che nello stesso centrosinistra l’argomento è molto controverso. Dopo le spaccature sull’Ucraina, un altro bastone fra le ruote del tentativo di unire le opposizioni in vista di elezioni politiche (quelle previste per il 2027) che ora si preannunciano difficilissime per il «campo largo».
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