Il referendum delle assenze: fuori dai seggi il partito dell’astensione

Non è vero che semplicemente ignorano il discorso: del referendum parlano, eccome. Nelle cene tra amici, commentando i manifesti, mentre scrollano i video sui social e anche al tavolino del bar. Quello di Fiumicello, piena zona ovest della città, ad esempio, spia di sbieco uno dei 1.172 seggi elettorali allestiti a Brescia. Il dialogo è drastico: «Non sei andato neanche tu eh?». «No no, scherzi? Sono anni ormai...». La curiosità si palesa tra un morso di brioche e il sorso di un caffè dal tavolino accanto (perché in fondo il quartiere è un po’ come un paese e, chi più chi meno, storie e visi si riconoscono): «Perché da anni non voti?». La risposta è definitiva: «Restiamo fuori dall’urna, perché siamo dentro la realtà».
Non hanno un identikit nitido e schierato come si potrebbe pensare: semplicemente si aggirano tra i tanti indecisi e pensano che, per un motivo o per l’altro, non possono realmente già esprimere un loro diritto. Non liberamente, quantomeno. Alcuni sono ideologici (hanno scientemente scelto, stavolta, di esprimere il loro giudizio di merito non andando ai seggi), altri metodici, poi ci sono i delusi e ci sono gli attivisti dell’astensionismo. Insomma, la popolazione del «non voto» non è ormai più relegabile solo a un trend: vince da anni elezioni e referendum di qualunque tipo. Un partito di gran successo, dunque, se contasse anche la sottrazione del consenso. Ma - esattamente come tutti i partiti - al suo interno ha variegate anime.
Generazioni
Ore 11 del mattino, zona sud-est, le schede sono ancora impilate in ordine perfetto, come appena sfornate. Neanche una piega. Il presidente di seggio smuove l’aria con una battuta: «Abbiamo avuto più caffè che votanti». Ridono solo gli scrutatori, ma senza crederci troppo.
Giulio – 32 anni, camicia aperta fino al terzo bottone e una laurea in lettere che non ha mai potuto usare davvero – accompagna sua nonna nella sezione. Lei entra con un enorme ombrello sottobraccio: «Non si sa mai» si giustifica. Si piazza nella deprimente fila (due persone in tutto), parla con tutti (scrutatori inclusi), commenta il referendum, il tempo e anche le scarpe della scrutatrice seduta all’angolo. Quando arriva il suo turno, entra in cabina lasciando fuori l’ombrello e il nipote.
«Se votare servisse a qualcosa, ce lo farebbero fare sui temi che davvero ci interessano, no?» domanda Giulio. «Io vado al bar: almeno lì qualcuno ti ascolta». Sul bancone, accanto al cappuccino, tiene il foglio informativo dei referendum. Glielo ha lasciato nonna Franca, «spera che ci ripensi». È ancora piegato. Nuovo di zecca, come la sua astensione: «Fino al 2022 sono sempre andato, poi ho capito che si ripete lo stesso schema: ci si trova a votare sempre un ripiego. Anche stavolta sulla cittadinanza: che senso ha? Fateci votare lo ius soli: no, questo contentino. Così poi per altri vent’anni si sono messi la coscienza a posto. No, grazie». Astensionismo di prima generazione.
Nel cortile del condominio di via Luzzago, intanto, Ahmed, 24 anni, guarda i vicini scendere le scale con passo lento. «Io no, non voto. Non posso» dice. È arrivato dalla Siria sette anni fa. Lavora in un supermercato, parla un italiano impeccabile e paga le tasse. «Mi chiamano nuovo bresciano, ma di fatto non lo sono. Oggi nessuno vota, e mi chiedo se per la maggioranza questo diritto sia solo un attestato qualunque da esibire e dimenticare». La domanda resta sospesa nell’aria, insieme al profumo di zucchine e cipolle che qualcuno ha appena iniziato a friggere. Arriva Sarah, il broncio splendido dei 15 anni stampato in faccia, sul cellulare gli ultimi aggiornamenti sul Brescia Calcio: «Sai cos’è il fatto? Io sono nata qui, parlo l’italiano meglio dell’arabo. Qui sono vista e trattata come una straniera, in Tunisia pure. Quindi io chiedo: dove dovrei stare? In questo momento, che cittadinanza dovrei avere?».
Effetto ripiego
C’è chi la fa facile. «Avevo promesso di votare, ma più per tagliare corto una conversazione» racconta Clara, 39 anni, grafica freelance e frequent flyer del cinismo politico. Alla fine ha deciso di non presentarsi. «Io il referendum lo faccio sulla vita reale: i prezzi, l’aria, il tempo. La politica, oggi, è fuori tempo massimo». Poi c’è Ernesto, 70 anni, pensionato ex insegnante, che si presenta al seggio con giacca e cravatta: «È il mio modo per ricordarmi che sono un cittadino». Ma confessa: «La verità è che la politica oggi mi sembra tutta scritta da un algoritmo. Voci diverse, stessa performance scadente. Voto perché credo nel principio, perché il diritto di farlo non è scontato, ma è chiaro che questi sono quesiti al massimo ribasso».
Al parco Ducos, intorno alle 16, si intravedono almeno tre cani, un clarinetto e quattro ragazze sedute sull’erba. Hanno tra i 19 e i 25 anni. Due hanno firmato per referendum che non sono mai arrivati al voto. Una si è iscritta a un collettivo che «non crede più nella rappresentanza, ma nella presenza». Eccoli, gli attivisti dell’astensionismo: «Abbiamo capito che qui bisogna esserci, ma non necessariamente nei modi previsti dal sistema - spiega Marzia, 23 anni -. L’astensione è politica. È un voto che non accetta il menu ma chiede una cucina nuova».
Giorgia, 29 anni, studia diritto e sorseggia un succo, parla di «disaffezione» con consapevolezza: «È rispetto per me stessa. Non partecipo a un gioco truccato. Quei cinque quesiti sono un ripiego, un contentino per la gente stanca. I veri problemi non ci sono. Non siamo qui per fare da comparsa».
Riflessioni
Poi c’è Min. Quarantun anni, cittadina italiana da due mesi. Corre verso il seggio come se ci fosse un volo da prendere. «In Myanmar ho visto i militari cancellare voti e città intere. Qui posso scegliere. E anche se siete stanchi o disillusi, per me questo è un privilegio enorme». C’è anche Anna, 28 anni: non ha ritirato le schede. Schiena dritta, sguardo deciso: «Il non voto è una protesta silenziosa, ma è anche una richiesta. Vogliamo un’offerta politica che non sia una fotocopia di se stessa, che ascolti davvero le nostre voci e i nostri bisogni».
I seggi bresciani sembrano più uno specchio che luoghi di scelta: riflettono i vuoti, i dubbi, le distanze. Non solo quelle tra cittadini e istituzioni, ma anche tra diritto e realtà. E allora il non voto, quello meditato, ironico, stanco o combattivo, diventa una forma di espressione. Una voce che non si alza per scelta, ma che non smette di esistere.
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