Referendum, il centrodestra s’intesta la fiducia: «Hanno fallito»

Chi era per il «sì» recrimina il boicottaggio, chi era per il «no» ribatte che «l’onere della prova» (in questo caso: l’interesse verso i temi lavoro e cittadinanza) spettasse ai proponenti dei referendum. Andiamo subito al sodo: la fazione del «sì» ha ufficialmente preso una scoppola di tutto rispetto, respinta in partenza da una partecipazione che ha fatto acqua (nella nostra provincia si è inceppata a un severo 26,59%).
L’elogio dell’apatia elettorale
Ma nonostante l’esultanza gloriosa del centrodestra, non si può certo dire che, in senso assoluto, abbia vinto il «no». Propinando l’elogio dell’apatia elettorale (alias: l’appello al non voto), è chiaro che la coalizione guidata dalla premier ha giocato d’astuzia due volte.
La prima, perché si è tolta dal groppone la fatica della campagna referendaria, risolta così in tempo zero. La seconda, perché in questo modo può mescolare il consenso reale verso il governo al sempre più affollato «partito dell’astensione», l’unico che - elezione dopo consultazione - ha dimostrato a tutti i livelli non solo di avere l’hype del momento, ma anche di riuscire a mantenerlo (a differenza del consenso legato al leaderismo, che ha finora seguito un andamento da montagne russe).
Fatto sta che le facili profezie, dal primo exit poll sull’affluenza di domenica, si sono avverate di ora in ora. E quello che si è cristallizzato ieri è un epilogo decisamente comodo per il centrodestra. Che ora gongola (e non poco).
La bocciatura
Il segretario provinciale di Fratelli d’Italia, Diego Zarneri parla di «flop totale» e (non a caso) di «scarsa credibilità politica della sinistra» che «prima ha governato male, poi voleva farci votare per abrogare le sue stesse leggi, costringendo a spendere 140 milioni di euro solo per regolare i suoi conti interni». Infierisce, appaiando il mancato quorum a una promozione dell’esecutivo: «Gli italiani hanno scelto la stabilità e confermato la fiducia nel governo. La partita per la sinistra era chiara: tentare il ribaltone. Il popolo italiano, e anche i cittadini bresciani, hanno mandato un messaggio chiaro: non si sono lasciati abbindolare dal referendum trasformato in un teatrino politico e usato come primarie del Pd. La spinta ideologica ha ricevuto un secco no: bocciati».

Sulla stessa lunghezza d’onda c’è la Lega, con l’on. Simona Bordonali che ribadisce quanto anticipato nei dibattiti pubblici pre-voto: «Questo è un segnale politico chiaro: gli italiani hanno bocciato un referendum trasformato strumentalmente in un attacco al governo. Mobilitare un intero partito e un solo sindacato per una battaglia tutta interna alla sinistra si è rivelato un boomerang. Anche il non voto è stata una scelta precisa, con cui la maggioranza dei cittadini ha respinto il tentativo di piegare un tema così serio a logiche di opposizione sterile». La posizione della Lega si consolida: «Ora si volti pagina: le norme sulla cittadinanza non si toccano e torniamo a parlare di lavoro, dove davvero si può fare la differenza in Parlamento, con serietà, non con slogan o scorciatoie».
Per il senatore Adriano Paroli (Forza Italia) quello certificato non solo dall’affluenza ma anche dall’esito della consultazione, era un risultato già scritto: «Purtroppo abbiamo detto fin dall’inizio che questi referendum erano anacronistici e ideologici e servivano alla visibilità di alcuni sindacati con a traino i partiti della sinistra che se ne contendono i voti. Il tutto per trovare qualcosa sulla quale riuscire a unire la sinistra, ma che alla fine ha decretato un fallimento e una spesa di oltre cento milioni di euro a carico di tutti». Il j’accuse di Paroli è frontale: «Questi referendum sono serviti a un sindacato in particolare, ossia alla Cgil, per ottenere visibilità e per dare un segno di vita e la sinistra li voleva a sua volta utilizzare per accaparrarsi l’elettorato legato al sindacato stesso. Una follia» è il giudizio lapidario dell’ex sindaco di Brescia.
Niente sfratto
Il partito di Maurizio Lupi è l’unico che, pur essendo all’interno della coalizione di centrodestra, non ha incitato a disertare i seggi. Ma la chiave di lettura non si discosta da quella degli alleati di governo. Ad esplicitarla è la voce della senatrice Mariastella Gelmini: «Con questa affluenza, i referendum che dovevano essere un "avviso di sfratto" per il governo Meloni si trasformano in una débâcle per la sinistra. Aver imboccato la strada del massimalismo fino al punto di rinnegare le proprie riforme, come ha fatto il Partito democratico sotto la guida Landini-Schlein, sarà forse utile per riempire le piazze, ma non lo è per conquistare gli elettori e proporsi come coalizione di governo». Gelmini è drastica: bolla i cinque quesiti come «sbagliati nel metodo e nel merito» e umilia il centrosinistra aggiungendo che «hanno dimostrato come quell’insieme di forze oggi all’opposizione possano al massimo rappresentare un cartello elettorale ma non una coalizione».
Come a dire che dopo questo verdetto il centrosinistra non può che rassegnarsi al ruolo di semplice spettatore. In realtà il quorum è apparso come un miraggio ben prima della due giorni dedicata al voto: non a caso l’aspettativa si era già abbassata in partenza, dichiarando una soglia psicologica del 30%. La leader nazionale dem Elly Schlein aveva cambiato obiettivo: puntare allo stesso numero di elettori del centrodestra alle ultime Politiche per «mandare un segnale» alla premier. Non a caso ha rimarcato il numero dei votanti (14 milioni), evidenziando che «sono più di quelli che hanno votato Meloni». Vero. Ma «il segnale» è lo stesso diventato un’arma (politica) a doppio taglio.
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