Referendum, Sinistra Italiana ai ferri corti: l’autogol sulla cittadinanza

È così andata proprio come voleva il centrodestra, che infatti ora festeggia e si annette il risultato dell’astensione auspicata e propagandata: lo sfratto al governo non è mai arrivato, si è perso per strada. I partiti alleati dell’ex «campo largo» (ora probabilmente defunto in via definitiva) hanno dimostrato di non riuscire ad andare oltre i confini della sinistra-sinistra, probabilmente quelli stessi che coincidono con il popolo che abbiamo visto a piazza San Giovanni giovedì 6 giugno. La prova non ha convinto gli elettori «fuori le mura» e la sinistra si è ristretta in se stessa. Non solo, ha dovuto subire lo smacco urticante di vedere arrivare addirittura al 40 per cento i «no» alla concessione di una più rapida cittadinanza agli immigrati: evidentemente quello slogan non trova concordi anche tanti elettori di sinistra che nel segreto dell’urna hanno mandato il loro messaggio ai capi dei partiti.
Quando dal PD, recriminando, si lamentano: «Non siamo riusciti a parlare al Paese», vogliono dire: non siamo riusciti a coinvolgere i riformisti moderati, quelli che non vogliono il governo Meloni ma non si fidano dell’alleanza di una sinistra sempre più radicaleggiante. In fondo la nostra Gauche ha vinto le elezioni solo due volte nella storia della seconda Repubblica, e solo quando ha trovato il modo di portare dalla propria parte, grazie a Romano Prodi e ai popolari, l’elettorato non radicale. Il quale si deve essere chiesto per quale ragione la sinistra con questo referendum volesse abrogare una legge voluta dalla sinistra medesima (il Jobs Act di Matteo Renzi, votato compattamente da tutto il PD) e cercare con questo di dare uno scossone al governo di destra. Quantomeno, un obiettivo difficile da spiegare, figuriamoci da condividere.

Adesso si vedranno le conseguenze. La prima, ovvia, è che il governo se aveva bisogno di un po’ di ossigeno per andare avanti, ne ha ricevuto dosi massicce dall’opposizione. La seconda, come accennato, è che l’alleanza tra PD, M5S, AVS, già divisa su molti campi, farà una fatica enorme a riprendersi – per esempio alle prossime elezioni regionali. La terza è che nel PD potrebbe aprirsi la resa dei conti tra la segreteria di Elly Schlein e l’ala riformista che non condivide la declinazione radicale impressa ad un partito sempre meno distinguibile da Fratoianni e da Conte.
L’ultima, è che probabilmente è tramontata la speranza di Maurizio Landini di rappresentare alle prossime elezioni politiche il «federatore» del «campo largo» all’insegna della CGIL Ci aveva provato anche Sergio Cofferati, ma era andata male anche a lui.
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