Piano aria e clima, Brescia aspetta il 2026 tra sfide e vuoti

La Loggia scrive il vademecum delle azioni possibili: per attuarlo servono concretezza e alleanze territoriali
La tavola rotonda su aria e clima - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it
La tavola rotonda su aria e clima - Foto Marco Ortogni/Neg © www.giornaledibrescia.it
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La città si è messa in cammino. Quattro laboratori partecipativi, un Piano aria clima (Pac) che punta a diventare «il piano dei piani» e un obiettivo comunitario da raggiungere che resta all’ordine del giorno: la neutralità climatica entro il 2050. Ma la strada, è evidente, è in salita. E non basta disegnarla sulla carta. Di questo - tra primi risultati e scenari ancora incerti - si è discusso ieri sera nella sala del camino di Palazzo Martinengo, dove il Comune ha organizzato la tavola rotonda sul tema «Il clima cambia. Anche noi?», moderata da Lucilla Perrini.

Transizione

«La crisi climatica - ricorda la sindaca Laura Castelletti - non è più solo un’urgenza ambientale. È responsabilità, visione, giustizia sociale». Lo dice mentre elenca gli interventi portati a termine, quei piccoli passi quotidiani che restano spesso sullo sfondo, ma che contribuiscono a comporre il puzzle delle azioni necessarie per vivere e stare meglio: tram elettrico, forestazione urbana lungo la tangenziale sud, vasche di laminazione, piano del verde e della biodiversità, bonifiche. Un mosaico di progetti che, se si accelera, potrebbero davvero cambiare il volto della città. Ma il nodo - per la Loggia in primis - resta quello delle alleanze: «Provincia e Regione? Assenti. E senza una condivisione di sensibilità e di valori, si cammina zoppi».

Perché il clima non è un’inquadratura: è la scena intera. A portare il peso della complessità è stato il giornalista e scrittore Ferdinando Cotugno, che ha rimarcato come «la crisi climatica non sia lo sfondo, ma la sceneggiatura della nostra vita. Non è un problema legato all’ambiente. È un problema sanitario, economico, sociale».

La sua storia personale - intrecciata con l’Italsider di Bagnoli - è una lezione sulla memoria tossica del progresso: «Quando muore un progetto di sviluppo, lascia fantasmi», esattamente come è stato per la Caffaro a Brescia. Cotugno ha posto domande scomode: «Come prepariamo i giovani alla nuova rivoluzione industriale del lavoro e delle competenza, quella green? Come superiamo la crisi di rigetto che il primo piano europeo ha generato, perché calato dall’alto?». La transizione, ha sottolineato, avverrà comunque. La differenza la farà chi decide di arrivare primo e chi, invece, resterà a guardare. E per affrontare un problema gigantesco come la crisi climatica, bisogna frazionarla in grattacapi affrontabili.

Ma dove nasce l’inquinamento? Dentro casa e sulle strade, prima di tutto. Lo sa bene Angelo Capretti, che coordina il tavolo sulla mitigazione: «La Val Padana è un reattore chimico. Qui tutto si concentra, si somma, si amplifica». A Brescia le colpe non sono (solo) dei camini. Nella provincia pesano le stufe a legna, in città pesano le auto. Ma c’è un dato che ancora spaventa: il 40% delle polveri sottili deriva da emissioni secondarie, spesso legate all’agricoltura. E finora, su quel fronte, si è detto poco e fatto meno.

In questo contesto, non costruire è anche costruire. È sul terreno - anzi, su ciò che resta libero dal cemento - che si gioca l’altra metà della partita. Lo ricorda l’urbanista Stefano Zenoni, coordinatore del tavolo adattamento: «Il suolo non edificato non è vuoto, è risorsa. Mitiga, raffresca, dà respiro alla città». Il Pac, nella sua visione, è una cornice dentro cui inserire tutte le azioni - urbanistiche, sociali, ambientali - che servono a prepararsi non a un futuro possibile, ma a un presente già in corso.

Un cambio di passo (e di prospettiva) necessario, perché inesorabile. Lo spiega in modo cristallino Cotugno: «Un patto fondato sull’inquinamento è molto difficile da rispettare. La transizione energetica avverrà che noi lo vogliamo o no». Per questo le parole chiave sono due: mitigazione e adattamento. E sempre per questo le città svolgono un ruolo centrale: «Abbiamo bisogno di portare persone e comunità a bordo».

Cambio di passo

Per l’assessora all’Ambiente Camilla Bianchi, la sfida è chiara: «Condividere in modo personale. Declinare il Pac concretamente anche nei piani urbanistici. Trovare coerenza tra le azioni e il territorio». I numeri le danno fiducia: dal 2010 al 2023, le emissioni sono calate del 30%, «segno che il cambiamento è possibile, ma serve uno sforzo collettivo. Non bastano le emergenze estreme per spingerci all’azione».

Restano però delle domande aperte. Chi paga la transizione? Quali lavoratori verranno accompagnati - e come - verso i nuovi modelli produttivi? Che ruolo hanno le comunità, nelle decisioni e, a cascata, nelle azioni decisive? Perché il passaggio dai propositi ai fatti è ancora così lento? L’aria, in fondo, è la metafora perfetta: è invisibile, ma si sente. È ovunque, ma non la vediamo. Eppure, determina la qualità della vita. E ci unisce, che lo vogliamo o no.

A Brescia si punta a chiudere la bozza del piano entro dicembre, approvarla in Consiglio comunale in aprile, ricandidarsi a Capitale green nel 2026. Solo negli ultimi due anni, oltre 15 milioni sono stati investiti in bonifiche. Ma la città chiede di più: chiede più coraggio, concretezza e, in alcuni casi, un maggiore ascolto. Perché la transizione non è (solo) un traguardo ambientale. È un test di democrazia.

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