Ogni giorno una vittima di violenza nei pronto soccorso bresciani

Una donna al giorno si rivolge mediamente ad uno dei pronto soccorso cittadini della rete antiviolenza bresciana. Numeri inferiori in altre zone della provincia, ma non per questo meno allarmanti. Anche perché il 20% circa delle trenta che in un mese chiedono aiuto per essere state picchiate o violentate decide di tornare nella stessa casa in cui vive chi le ha aggredite.
A prevalere è la paura per il destino dei figli, oltre che per il proprio. Una paura che ha la meglio sul bisogno di sicurezza. Il ruolo di chi lavora in pronto soccorso è molto delicato perché è in quel momento che la donna può iniziare a raccontare la situazione di maltrattamento subito.
Un momento in cui è possibile riconoscere la violenza, svelare la violenza avvenuta che in molti casi viene mascherata dal racconto di una ipotetica caduta dalle scale, intercettare la domanda di aiuto della donna che non è sempre esplicita, far fronte ad intense emozioni e molteplici bisogni della donna e fornire informazioni sui servizi del territorio e della rete antiviolenza (www.nonseidasola.regione.lombardia.it). Serve tempo, e non solo tempo, per entrare nelle pieghe della delicatezza del momento ed evitare, come è già accaduto, che una donna arrivata in pronto soccorso raccontando di essere caduta dalle scale in realtà fosse al suo trentesimo accesso e, ogni volta, la giustificazione delle ferite e del massacro fosse la caduta delle scale. Ecco, con maggiore insistenza e perizia, a quella vittima potevano essere risparmiate, se non tutti, almeno moltissimi «scivoloni».Chi accoglie deve sapere che una donna viene aggredita più e più volte prima di chiedere aiuto, spesso anche al pronto soccorso. In media, dalle cinque alle dodici volte prima di ricevere una risposta appropriata e di supporto. Chiedere aiuto all’esterno è un passaggio di lungo percorso ed anche quando la vittima decide di compierlo spesso non è convinta di arrivare in fondo. «Per questo è fondamentale la capacità di intercettare la richiesta della donna, che non è sempre esplicita» spiega Laura Fochesato del Centro antiviolenza «Il cerchio della Luna», realtà di recente costituzione e che sta attivando sportelli di ascolto in città e una casa rifugio che si aggiungeranno ai molti della rete già attivi da anni.
«Il cerchio della luna» sta attivando in questi giorni uno sportello all’interno del Pronto soccorso dell’Ospedale di Esine in Valcamonica nell’ambito di un progetto-pilota di Regione Lombardia in cui sono coinvolti anche il Papa Giovanni XXIII di Bergamo e la Clinica Mangiagalli di Milano.
«I protocolli per non lasciare le donne sole sono molti belli sulla carta - continua Fochesato -. Poi, però, devono essere applicati e concretizzati da persone che realmente credono che sia possibile aiutare le donne, intercettare anche i loro silenzi, aiutare con professionalità scelte che possono fare la differenza nella loro vita. Altrimenti, non ha senso. Essere in pronto soccorso, con professionisti che hanno gli strumenti per intervenire in aspetti che non sono di stretto carattere sanitario, significa riuscire ad intercettare le vittime ed accompagnarle, anche metaforicamente, nella scelta dei molti servizi che sul territorio possono essere d’aiuto per la situazione specifica.
In questo, servono figure professionali competenti proprio perché il pronto soccorso è il luogo privilegiato per individuare la violenza». Per chi vi lavora, il compito è molto delicato in generale, lo è a maggior ragione quando deve curare ed assistere una donna vittima di violenza.
«È un momento in cui la persona può iniziare a raccontare la situazione di maltrattamento - spiega Adriana Testa del Servizio sociale dell’Azienda sociosanitaria territoriale Spedali Civili, realtà capofila di uno dei progetti sperimentali accettati dalla Regione anche per le vittime di violenza assistita -. In pronto soccorso è la vittima che decide se attivare il numero di emergenza, operativo 24 ore su 24, per valutare la possibilità di essere ospitata in una struttura protetta. In quel caso, dal pronto soccorso chiedono il supporto di operatori del Centro antiviolenza Butterfly. Intervengono sempre i Servizi sociali interni quando ci sono minori la cui situazione viene segnalata alla Procura. In ogni caso - continua Testa - la donna è libera di decidere e non possiamo obbligarla se non vuole essere inserita in una casa rifugio».
Già, non si può obbligare, anche perché andare in protezione è drammatico. La scelta è difficile, dolorosa e penalizzante per la vittima. Una doppia ingiustizia, perché bisognerebbe allontanare non lei, ma la persona che le ha usato violenza.
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