L'EDITORIALE
Perché rimuovere la violenza di genere è responsabilità di tutti

La copertina del Giornale di Brescia del 22 ottobre 2021 per ricordare le vittime di femminicidio - Foto © www.giornaledibrescia.it
Fino a quarant’anni fa il femminicidio era «delitto d’onore», per il quale il codice penale italiano prevedeva pure uno sconto di pena. Oggi è il «raptus», la «gelosia», l’«amore malato», i «problemi di coppia», la «provocazione», il «gene della violenza»... qualunque cosa, pur di allontanare la responsabilità dell’uccisione di una donna che cerca la propria libertà e indipendenza, dal vero colpevole: un uomo incapace di accettare questa perdita di controllo su una persona considerata proprietà personale, quando non «oggetto» del proprio piacere e volere.
Una questione dei responsabilità
È questa la parola chiave di fronte al fenomeno del femminicidio, che sembra inarrestabile e inarginabile proprio perché relegato nella sfera della follia e della «malattia». Responsabilità che invece va messa in capo a tutti, se dietro al femminicidio si legge un problema di tipo culturale, legato a stereotipi di genere che sono eredità di un passato (e in alcune aree ancora presente) fortemente patriarcale, che vengono non di rado perpetuati anche nella narrazione dei social, dei media, della pubblicità, dell’educazione.
Narrazione che inchioda spesso la donna ad un ruolo subalterno all’uomo, nella casa come nel mondo del lavoro (e qui si apre l’ampio dibattito sulla questione non solamente grammaticale della declinazione al femminile delle professioni di prestigio), che ne lega la rappresentazione all’aspetto fisico e allo sguardo maschile (con derive rischiose soprattutto tra le giovani), e che giustifica nell’uomo quel senso di possesso e controllo che, venendo meno, scatena la violenza. Relazioni «malate», certo, quelle che sfociano nei femminicidi. Ma malate nella misura in cui gli uomini non hanno la capacità di assorbire la frustrazione di un abbandono, vissuto come un’offesa personale, un’onta da lavare, soprattutto di fronte ad una società che «condanna» (un esempio recente? Il «tapiro» a Ambra Angiolini) chi non è stato in grado di tenere in piedi una relazione. Costi quello che costi.
Chi ne fa le spese
Non è un caso, se quasi tutti questi uomini, dopo aver commesso il delitto, o si suicidano o si consegnano alle forze dell’ordine. Come se avessero portato a termine un compito, una missione, che prevede sì la punizione o l’autopunizione, ma che in un certo senso chiude un cerchio, ristabilisce un equilibrio compromesso. Di cui però fanno le spese la vittima, che in questo modo non potrà godere della conquistata libertà, e spesso i figli, vittime incolpevoli privati di entrambi i genitori, non tutelati dalla legge e costretti a portare un peso che li segnerà nell’intera esistenza. Certo, passi avanti sono stati fatti, dall’introduzione del «codice rosso» che tutela le donne vittime di violenza e di stalking, e che tenta per quanto possibile di prevenire l’esito tragico di queste situazioni. Ma fino a che la società nel suo complesso non accetterà di fare i conti con un fenomeno che ha radici e ramificazioni culturali, l’intervento della giustizia sarà solo un tampone.
Il caso più recente
Ora basta
Basta trincerarsi dietro il riserbo di chi non vuole intromettersi nei problemi di una relazione. Chi ha un’amica in difficoltà col compagno, la inviti a prendere un caffè e si faccia raccontare. Chi ha un collega che non riesce ad accettare una separazione, lo convinca a trovare un aiuto e una mediazione. Chi sente i vicini litigare suoni il campanello, ficchi il naso, chiami i carabinieri. Perché bisogna far muro contro una cultura che sui social e sui media tiene vivi quegli stereotipi di genere che alimentano prevaricazione e violenza. Chi ha un figlio, una figlia adolescente non si stanchi di parlare di rispetto, per sé e per gli altri, dia esempio in famiglia di cosa significa condivisione di diritti e doveri, stravolga i ruoli tradizionali. Ogni Comune abbia una stanza in cui chiunque, senza appuntamento, possa trovare ascolto su questi temi. Ogni scuola attivi incontri, laboratori, giornate in cui si parli di violenza di genere ma anche di espressione delle proprie emozioni, frustrazioni, rabbie. Ogni comunicatore pesi le parole che usa per raccontare questi fenomeni. È responsabilità di tutti, nessuno si chiami fuori.
Dove andare in caso di bisogno di aiuto
Sono diversi i centri antiviolenza operativi sul territorio provinciale, a cui possono rivolgersi le donne. A Brescia operano la Casa delle Donne (telefono 0302400636 o 0302807198, email casa@casadelledonne-bs.it) e il Centro antiviolenza Butterfly (0302352018 oppure 3924886330, email butterfly2019@outlook.it). In Valcamonica ci si può rivolgere a Terre Unite (0364536632, centroantiviolenza@terreunite.it) o al centro antiviolenza Il cechio della Luna (3311256117, ilcerchiodellaluna@libero.it). In Val Trompia il centro VivaDonna (3357240973, antiviolenzavalletrompia@gmail.com). Sul Garda opera Chiare Acque (3349713199, chiareacque.cavsalo@gmail.com). In Franciacorta la Rete di Daphne (030653455, email associazione.daphne@libero.it).
Numeri di emergenza e consulenza
Il numero Antiviolenza Donna 1522 risponde 24 ore su 24 gratuitamente da tutta Italia. Per emergenze c’è il 112. In città dà consulenza sul tema della violenza di genere il Telefono Azzurro-Rosa (030350301, 337427363, numero verde 800001122, email info@azzurrorosa.it) sul cui sito ci sono anche indicazioni su come comportarsi in caso di bisogno (https://www.azzurrorosa.it/informazioni-caso-bisogno/).
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