Ci vuole coraggio per fare ancora il Fatulì, formaggio raro e ribelle

La sua produzione con il latte della Capra Bionda dell’Adamello è un piccolo miracolo di fumo, memoria e pazienza: la racconta Monia Tiberti, casara erede di una tradizione bresciana che rischia di scomparire
Il Fatulì, formaggio camuno affumicato con legna di pino e ginepro - Foto Lisa Foresta © www.giornaledibrescia.it
Il Fatulì, formaggio camuno affumicato con legna di pino e ginepro - Foto Lisa Foresta © www.giornaledibrescia.it
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C’è un camino a Saviore dell’Adamello dove il fumo crea qualcosa che è tradizionale e al tempo stesso ribelle. Dentro, avvolto tra le braci di pino e ginepro che stanno per spegnersi, riposa un piccolo formaggio dorato, dello stesso colore del manto delle capre Bionde dell’Adamello da cui arriva il latte.

È il Fatulì, che da secoli racconta la montagna e la sua gente. A custodirne il segreto oggi è Monia Tiberti, ultima erede di un antico sapere che in paese si tramanda da generazioni: una tradizione che lei ha imparato quando aveva appena sette anni, guardando sua nonna lavorare il latte con gesti precisi, e che continua da 40 anni.

L'autunno abbraccia la Val Saviore - Foto Lisa Foresta © www.giornaledibrescia.it
L'autunno abbraccia la Val Saviore - Foto Lisa Foresta © www.giornaledibrescia.it

Una devozione che resiste ai tempi che cambiano e agli standard di quel Presidio Slow Food che tanto ha fatto conoscere negli anni la prelibatezza della Val Saviore. Fuori dal tempo e dagli schemi: così nasce il Fatulì ribelle.

Aria di pascolo

Le giornate di Monia e del marito Giacomo cominciano con la mungitura delle capre Bionde dell’Adamello, la razza autoctona che allevano con pazienza e orgoglio. «Ne abbiamo un centinaio – spiega – tutte al pascolo da aprile fino a metà novembre. È solo in questo periodo che facciamo il Fatulì, un po’ perché la produzione di latte poi cala ma anche perché questo formaggio deve nascere dal latte di bestie libere, nutrite dall’erba e dai fiori profumati e dall’aria buona della montagna». Un’aria che in questi giorni già sa della prima neve che ha fatto capolino sui monti.

La Capra Bionda dell’Adamello

Razza autoctona delle Alpi Centrali, la Capra Bionda dell’Adamello è un simbolo vivente della Val Camonica e della montagna bresciana. È un animale elegante, dal mantello color miele con riflessi dorati e due striature bianche che dal muso risalgono verso le orecchie, quasi a incorniciarne lo sguardo fiero. Appartiene al gruppo delle capre alpine europee e ha trovato da secoli la sua casa naturale nei pascoli del massiccio dell’Adamello, in particolare nella sua parte sud, in Val Saviore, ma anche nelle valli di confine bergamasche e trentine.

Le Bionde dell'Adamello - Foto Lisa Foresta © www.giornaledibrescia.it
Le Bionde dell'Adamello - Foto Lisa Foresta © www.giornaledibrescia.it

La Bionda non è solo una razza: è anche un frammento di cultura, un modo di vivere la montagna. Il suo latte, poco ma prezioso – circa due litri per mungitura –, concentra gli aromi dei pascoli alti, delle erbe di quota e dei boschi di ginepro.

Oggi la Capra Bionda è una razza minacciata, con appena 1.300 femmine adulte censite: un numero che la Fao inserisce nella categoria «in pericolo».

  • Le capre Bionde dell'Adamello vanno al pascolo
    Le capre Bionde dell'Adamello vanno al pascolo - Foto Lisa Foresta © www.giornaledibrescia.it
  • Le capre Bionde dell'Adamello vanno al pascolo
    Le capre Bionde dell'Adamello vanno al pascolo - Foto Lisa Foresta © www.giornaledibrescia.it
  • Le capre Bionde dell'Adamello vanno al pascolo
    Le capre Bionde dell'Adamello vanno al pascolo - Foto Lisa Foresta © www.giornaledibrescia.it
  • Le capre Bionde dell'Adamello vanno al pascolo
    Le capre Bionde dell'Adamello vanno al pascolo - Foto Lisa Foresta © www.giornaledibrescia.it

Gli allevamenti che la custodiscono sono poco più di un centinaio, distribuiti tra poco più di 50 comuni bresciani e una manciata di paesi tra Bergamo e Trento. Pochi, ma determinanti: in molti casi sono giovani agricoltori che hanno scelto di tornare in quota per restituire vita ai pascoli e alle tradizioni di famiglia.

È una capra rustica, tenace, abituata a vivere all’aperto per gran parte dell’anno, come fanno le greggi di Monia e Giacomo: oggi questa razza, è anche patrimonio culturale e genetico, un simbolo della resilienza delle comunità alpine. Ed è da lei, dalla sua fierezza e dal suo latte dorato, che nasce ogni giorno il Fatulì di Monia, piccolo miracolo di fumo, memoria e pazienza. Una rarità: in un'azienda come quella di Tiberti se ne producono dalle sei alle otto forme alla volta.

Come si fa il Fatulì

Il processo di produzione è semplice solo in apparenza: si inizia con la mungitura serale, poi quella del mattino, il latte che riposa e viene miscelato, scaldato a 36 gradi e poi cagliato con cura. Dopo un’ora, la cagliata viene raccolta e modellata da Monia in un vecchio piatto di peltro: una reliquia, eredità materiale della nonna, che si accompagna a quel lascito di sapienza immateriale di questo Fatulì ribelle.

  • Il processo di produzione del Fatulì
    Il processo di produzione del Fatulì - Il processo di produzione del Fatulì
  • Il processo di produzione del Fatulì
    Il processo di produzione del Fatulì - Il processo di produzione del Fatulì
  • Il processo di produzione del Fatulì
    Il processo di produzione del Fatulì - Il processo di produzione del Fatulì
  • Il processo di produzione del Fatulì
    Il processo di produzione del Fatulì - Il processo di produzione del Fatulì
  • Il processo di produzione del Fatulì
    Il processo di produzione del Fatulì - Il processo di produzione del Fatulì
  • Il processo di produzione del Fatulì
    Il processo di produzione del Fatulì - Il processo di produzione del Fatulì
  • Il processo di produzione del Fatulì
    Il processo di produzione del Fatulì - Il processo di produzione del Fatulì
  • Il processo di produzione del Fatulì
    Il processo di produzione del Fatulì - Il processo di produzione del Fatulì
  • Il processo di produzione del Fatulì
    Il processo di produzione del Fatulì - Il processo di produzione del Fatulì

«Mia nonna mi ha insegnato tutto – racconta la casara –. Da bambina la osservavo e poi ho cominciato anch’io a farlo, nello stesso piatto che uso ancora oggi. Non so quanti anni abbia, ma è una reliquia di famiglia: non potrei farlo in nessun altro modo».

La cagliata così formata viene salata e poi resta immersa nel suo siero per una notte. Solo allora può cominciare l’affumicatura, l’inconfondibile unicum di questo formaggio raro.

L’affumicatura preziosa

La magia avviene in un piccolo fienile che oggi ha solo questa funzione, e per raggiungerlo bisogna attraversare il torrente Salarno, anche accompagnati dalle capre che vanno al pascolo in questi ultimi spiragli di stagione.

Nel camino viene accatastata poca legna di pino, tagliata in piccoli pezzi, e rami di ginepro alpino, raccolto sui monti d’estate e poi fatto seccare. Oggi la raccolta sarebbe una vera e propria pratica di foraging, ma in questa storia non è altro che un pezzo di tradizione millenaria che completa il puzzle di questa ricetta.

L'affumicatura - Foto Lisa Foresta © www.giornaledibrescia.it
L'affumicatura - Foto Lisa Foresta © www.giornaledibrescia.it

«Le forme si mettono sul camino acceso. Il fumo deve salire piano piano: due le accensioni giornaliere, una al mattino e una alla sera, così per quattro giorni. Il calore è alto, il Fatulì al cuore raggiunge i 70 gradi. Ma poi la temperatura si abbassa dolcemente e il fumo accarezza il formaggio. È così che prende il suo profumo, quello vero, quello che veniva usato una volta non per insaporire, ma per conservare». Perché, come spiega Monia, non interessava ai tempi l’aroma, ma conservare quel formaggio che era costato fatica, sudore e sacrificio.

A rischio scomparsa

Oggi il Fatulì di Capra Bionda dell’Adamello è un Presidio Slow Food, ma a farlo come una volta, con le mani e il camino, a Saviore dell’Adamello è rimasta solo Monia. Le sue forme assomigliano più a piccole pagnottelle, anche nel colore. «Non c’è più nessuno ormai – sospira –. Lo facciamo solo noi, come si faceva un tempo. È un lavoro faticoso, ma pieno di soddisfazioni». Una fatica che oggi non attira molti giovani. «È difficile trovare chi voglia continuare – ammette –. Ci sono pochi allevatori, e la capra bionda produce meno latte rispetto ad altre razze. Ma il suo latte è speciale, perfetto per il Fatulì».

Guardando al futuro, Monia non si nasconde dietro la nostalgia, ma spera in un cambio di passo. «Vorrei che i ragazzi riscoprissero l’amore per questo mestiere. È un lavoro di rinunce, sì, ma anche di libertà. La montagna ti ripaga».

Che sapore ha il Fatulì

E questo viaggio quasi nella pancia dell’Adamello non poteva che finire con un assaggio. Una sorpresa: se al naso prevale, e non potrebbe non essere così, la nota affumicata e l’assenza dell’ircino classico del formaggio di capra, al gusto, subito colpisce la sapidità del formaggio.

Il Fatulì prima dell'affumicatura - Foto Lisa Foresta © www.giornaledibrescia.it
Il Fatulì prima dell'affumicatura - Foto Lisa Foresta © www.giornaledibrescia.it

Poi una leggerissima nota caprina, per niente invasiva, che lascia una dolcezza in bocca che viene mitigata solo dall’affumicatura che rimane, imperante, nel finale, ma dove si distingue, oltre alla totale naturalezza, la nota data dal ginepro. Usando i parametri della nota guida Michelin, questo formaggio è unico e vale il viaggio.

E così, mentre il fumo sale lento dal camino e il profumo del ginepro riempie l’aria, Monia continua a fare il suo Fatulì ribelle, quello antico, quello che ha il sapore della memoria. Un sapore che rischia di spegnersi, se nessuno raccoglierà il suo testimone.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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