Malga Varadega: tra latte, burro e formaggi, com’è la vita a 2mila metri
Quando si sale in montagna si sente una sorta di riappacificazione interiore: non è la pace che trasmette il mare con lo sguardo che proietta all’infinito dell’orizzonte, è una vera e propria elevazione che spinge verso l’alto, verso l’estremo delle vette, verso il mistero del cielo.
La montagna rivive
La montagna non è però solo elevazione, prati verdi e poesia, non è solo camminate più o meno complesse, più o meno aiutate da impianti di risalita che spuntano – ancora – ovunque sull’arco alpino, non è il rifocillarsi con pasti luculliani in rifugi attrezzatissimi: la montagna è anche fatica.
È ancora, a tratti, quella selvaggia dei nostri avi, di chi nelle valli, tra Alpi e Prealpi, ha fatto crescere e realizzato il «sogno bresciano» che, poi, pian piano, ha portato a emanciparsi dalla montagna, fino ad arrivare ad oggi, al racconto – lo dicono i dati degli ultimi cinquant’anni – dello spopolamento delle Aree interne, anche le nostre, e di una lenta e lunga agonia.

Ma i dati parlano anche di qualche piccolo movimento che si spera possa diventare inversione di tendenza: negli ultimi cinque anni – secondo l’Istat e il rapporto «Montagna Italia 2025» dell’Uncem – complici l’epidemia da Covid da una parte e la spinta dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza dall’altra, la montagna si è risvegliata. Centomila gli italiani che sono tornati ad abitare le Aree Interne.
C’è chi però la montagna, in particolare, l’ha sempre fatta vivere e vissuta, come Gioacchino Antonioli, classe 1989, uno dei più giovani malghesi della provincia di Brescia. Con lui abbiamo passato una giornata alla scoperta del suo mestiere che è molto di più che semplice cura delle bestie in altura.
Malga Varadega

Monno, 515 anime tra i paesi dell’Alta Valcamonica: 105 chilometri di distanza dalla città esattamente – se non si prende la BreBeMi – quanto da Brescia dista il centro di Milano. Sale alla ribalta della cronaca dal 1990, quando il Passo del Mortirolo viene inserito tra le salite del Giro d’Italia: verrà affrontato da allora diciassette volte, scalato da Edolo, da Mazzo di Valtellina, da Tovo di Sant’Agata e, proprio quest’anno, da Monno, dove è mancato però l’esordio del temutissimo muro della Recta Contador.
È proprio a pochi minuti dal Mortirolo che si trova Malga Varadega: stalla e abitazione sono a 2000 metri di altezza, i pascoli più elevati raggiungono anche i 2400 metri e lì, in questa estate di repentini cambi del meteo e di grandi escursioni termiche, si è fatta vedere anche una spolverata di neve, portata da quell’aria fredda dal Nord Atlantico che ha spazzato via per qualche giorno il caldo africano.
Ritorno alle origini

È qui che, da metà giugno e fino almeno – perché anche qui il meteo è sovrano – all’inizio di settembre, vive e lavora Gioacchino Antonioli insieme alla moglie Marika Pietroboni, ai figli Martina e Davide e al cugino di lei, Emanuele Maffeis, giovane aiutante in altura.
Per Gioacchino è un ritorno alle origini: fino al 1995 quella malga era stata gestita da entrambi i suoi nonni, e proprio lì è iniziata la sua passione per questo mestiere. «Ho sempre avuto l’intenzione di avere la mia azienda agricola e di tornare in malga. Ho sposato Marika e abbiamo anche avviato il nostro progetto di vita, che prevede per la nostra famiglia proprio questo. Quando il Comune di Monno ha poi rinnovato i contratti delle malghe, abbiamo voluto provare cosa significasse fare questo tipo di allevamento, e ce l’abbiamo fatta. I miei nonni materni e paterni in questo luogo hanno passato grande parte della loro vita, mi hanno trasmesso questa passione e ora siamo qui anche noi».
Le condizioni sono però ben diverse: i locali sono stati ristrutturati grazie ai fondi comunitari e regionali, la corrente elettrica è garantita da pannelli fotovoltaici e da un generatore, si arriva alla malga con un mezzo 4x4 o con una semplice camminata di cinque minuti dalla macchina. Questo non vuol dire che non sia una vita di sacrificio e fatica, perché la quotidianità inizia alle 5.30, quando la sveglia suona e si parte con la prima mungitura.
Le vacche
Sono una quarantina le vacche allevate a Malga Varadega, di razza Bruna alpina: «Sono bestie che danno molta soddisfazione – spiega Antonioli – ho sempre avuto la passione per questa razza perché, oltre ad essere longeva e di grande bellezza, ha un’ottima resa di latte e la qualità dello stesso facilita la caseificazione».
La mungitura non è più a «nodèi» o a «bràche», le tecniche manuali più diffuse nelle nostre montagne, ma è meccanica, come in una moderna stalla della Bassa Bresciana, e in poco meno di sette minuti la bestia torna al pascolo. Non è solo questione di comodità, ma anche di abitudine dell’animale che, va ricordato, passa in altura alcuni mesi all’anno, e gli altri in stalla in paese, e che quindi è uso al vuoto spinto della mungitrice e non più alla forza delle mani, a volte nerborute, del pastore. La produzione media in altura per ogni capo è di 10 litri di latte al giorno, ben lontana da quella in stalla, dove può arrivare a 40 litri, ma le proprietà organolettiche sono completamente diverse, ed è quando viene trasformato in formaggio e burro che si sente tutta la differenza.
Il burro e il formaggio
La prima lavorazione è quella del burro: la panna viene fatta affiorare, raccolta e messa in lavorazione in una zangola meccanica: una volta solido, viene risciacquato per togliere tutti i residui di latticello, che lo farebbero irrancidire, e poi viene formato nello stampo in legno. A Malga Varadega si producono tutti i giorni circa sette chili di burro.
Per chi lo ama, mangiare il formaggio è sempre un’esperienza culinaria e sensoriale pari a quella del vino per i veri estimatori. Vedere fare il formaggio è una vera e propria magia: è attesa, movimenti precisi e cadenzati che si fanno a tratti potente danza del mastro casaro, ma è anche tanta scienza e molta chimica. Fare il formaggio è un’arte.
Le lavorazioni del formaggio sono a latte crudo: da un lato per scelta, così che vengano mantenuti i microorganismi naturali e si conferisca al formaggio poi un sapore più intenso e complesso, da un lato perché, in alta quota, riuscire a pastorizzare il latte è complesso per via delle alte temperature da raggiungere. Nel piccolo caseificio, dove ribolle il latte dal quale si ricaverà abbastanza per due forme di formaggio semi-stagionato, c’è anche la stanza dove avvengono la stagionatura e la salatura. Oltre alla ricotta poi, Marika ha imparato a fare anche la mozzarella, che qui diventa «d’alta quota».
Pascolo e routine
Nel pomeriggio le mucche vengono lasciate libere al pascolo, la seconda mungitura avviene verso le 18, e la giornata si conclude non prima delle 23. Nel mentre, si curano la malga, i prati, i ruscelli, le strade e i sentieri, il territorio: così si previene in maniera attiva il dissesto idrogeologico, altra piaga della Aree Interne. Non è solo una mera azione di prevenzione, ma una vocazione che trova compimento nell’impegno quotidiano verso quella terra che è per la gente di questi posti davvero Madre. E questa è la routine quotidiana in malga, sette giorni su sette per tre mesi. «Sono le bestie a dettare i tempi», sorride Gioacchino.
Presidio, cura e cooperazione

A Monno gli allevatori si contano sulle dita di una mano, con aziende agricole di piccole-medie dimensioni che assicurano il futuro della montagna: «L’essere un presidio per la cura del territorio ci viene riconosciuto forse un po’ poco. Dietro al bello che tutti vedono c’è tanto sacrificio e tanta manodopera che in montagna non è mai abbastanza. La montagna ha bisogno di cooperazione, perché da soli non si fa nulla. E non si può più lavorare soli. E per fare sistema intendo anche attivamente da parte delle autorità, lo Stato, la Regione, comuni e Comunità Montana. Perché in questo territorio senza agricoltura non c’è nemmeno il turismo, e il rischio è che non ci sia più lavoro per nessuno».
«La montagna ha bisogno di persone che credono nel territorio, che davvero ci credono e non solo per sfruttarla o fare delle speculazioni. Bisogna impegnarsi nel farlo in qualsiasi momento, sia quando le prospettive sono positive sia quando sono più negative, quando il guadagno è poco o addirittura meno. Solo se ci crediamo insieme riusciremo a ripopolarla»: perché anche in questo Gioacchino Antonioli vede un futuro non solo per l’agricoltura e l’allevamento in altura, ma per la vita delle Aree Interne.
Passione, sacrificio, quotidianità. Il piccolo Davide, due anni, non ha ancora finito di pranzare che scappa da tavola e va dalle sue mucche: non si ferma un attimo e ripete i gesti del padre, in maniera innata. Fare il malghese è già più di un gioco, è essere malghese, fin da piccolo, come lo è stato e lo è per Gioacchino.
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