La nuova difesa europea e ciò che resta di Helsinki

L’accordo dei Paesi europei della Nato fissa al 5% del Pil il livello della spesa militare da raggiungere entro il 2035
La presidente Ursula von der Leyen - Foto Epa/Jessica Lee
La presidente Ursula von der Leyen - Foto Epa/Jessica Lee
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A fronte del dibattito sviluppatosi in Europa in tema di difesa e sicurezza in seguito all’aggressione russa all’Ucraina e alla deflagrazione della crisi mediorientale, nonché soprattutto alla luce dell’accordo dei Paesi europei della Nato con il quale si fissa al 5% del Pil il livello della spesa militare da raggiungere entro il 2035, vale la pena di tornare a quello che in piena guerra fredda segnò una svolta nel sistema delle relazioni internazionali: l’Atto finale della conferenza tenuta a Helsinki nel 1975. Il culmine di una prospettiva politica di integrazione che ha garantito la pace per interi decenni, rendendo tra l’altro possibile la riunificazione tedesca.

Alla luce dell’Atto alcuni principi quali fonte di ispirazione di un’intera strategia politica: l’uguaglianza degli Stati a prescindere dalle loro dimensioni, la salvaguardia dell’unità territoriale di ciascun Paese, la rinuncia alle minacce reciproche e all’ingerenza negli affari interni delle singole nazioni, l’impegno ad accordi di cooperazione globale in vista di un progressivo disarmo.

Da allora sono passati anni luce ed è venuto progressivamente indebolendosi l’intero impianto della politica di sicurezza e di cooperazione fissato ad Helsinki così come sono stati disattesi gli impegni sul disarmo nucleare del Trattato di non proliferazione riaffermato nel 1995. Helsinki comunque indica una via in quanto il ritorno ad una politica di deterrenza senza un controllo degli armamenti non renderebbe di per sé l’Europa più sicura, protagonista di una politica di pace, nell’assunzione di una responsabilità retta sull’affermazione della propria indipendenza e sovranità.

Il presidente Donald Trump - Epa/Shawn Thew
Il presidente Donald Trump - Epa/Shawn Thew

Particolarmente in rapporto alle pressioni, anzi alle pretese, di Donald Trump, assecondate peraltro dalla servile genuflessione di Mark Rutte, l’ex premier olandese oggi segretario generale della Nato. Il tycoon americano finge di non sapere che gli Stati Uniti spendono nel 2024 il 3,38% del loro Pil in difesa, dunque meno di quanto richiesto ai Paesi europei. Essi già oggi investono già quasi il doppio della Russia a motivo di una infrastrutturazione istituzionale insufficiente e le sono nettamente superiori in termini militari convenzionali. In realtà una nuova architettura di sicurezza europea non può prescindere dalla definizione di una politica estera oggi latitante, priva di un ruolo assertivo, in assenza di linee condivise tra gli Stati dell’Unione, per lo più alle prese con la sindrome bellicista del «si vis pacem para bellum» evocato recentemente anche da Giorgia Meloni.

L’opposto di quanto sarebbe richiesto a fronte della frammentazione del vecchio sistema multipolare e della moltiplicazione dei fattori di instabilità internazionale che invece richiederebbero un alto grado di integrazione. Un recente documento elaborato da esponenti della Spd tedesca e da numerosi studiosi di politica internazionale propone un’agenda che, muovendo dal realistico assunto della necessità di una politica di difesa – la difesa è certamente parte e fattore di garanzia di un sistema democratico –, enuclea una serie di proposte e iniziative ispirate all’idea dei piccoli passi dai quali procedere: la limitazione di ulteriori escalation, la tutela di standard umanitari, l’avviamento di una cooperazione tecnica estesa a molteplici settori compreso quello della sicurezza informatica, la ripresa di rapporti diplomatici con la Russia finalizzati al cessate il fuoco in Ucraina, il rilancio del trattato Start del quale Putin nel febbraio del 2023 ha annunciato sì la sospensione senza tuttavia ritirarsi dall’accordo che prevede la diminuzione delle armi di distruzione di massa.

Si tratta inoltre di mettere a tema l’obiettivo di un esercito comune europeo al fine di superare l’attuale frammentazione, di finalizzar la disponibilità delle risorse razionalizzando gli investimenti, di unificare le politiche industriali connesse alla difesa, di potenziare gli equipaggiamenti per le forze armate di protezione. Tutto questo nell’ambito di una politica estera che eviti doppi standard morali, rispettando regole enfaticamente proclamate e poi disattese, retta sul rafforzamento di istituzioni unitarie che pongano fine ad un agire incoerente e in ordine sparso da parte di Stati oggi incapaci di convergenze operative e di ottenere adeguati corrispettivi. Come la vicenda dei dazi trumpiani e delle centinaia di miliardi in armi da acquistare dagli Usa a fortiori dimostra.

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