Intesa transatlantica, ma a che prezzo?

L’accordo tra Ursula von der Leyen e Donald Trump che annuncia i dazi al 15% ha scatenato una serie di riflessioni. Per il Primo ministro François Bayrou si tratta di un atto di «sottomissione»
Usula von der Leyen e Donald Trump - Foto Ansa/Afp/Smialowski © www.giornaledibrescia.it
Usula von der Leyen e Donald Trump - Foto Ansa/Afp/Smialowski © www.giornaledibrescia.it
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L’Unione Europea s’impegna ad acquistare 750 miliardi di dollari di beni «strategici» ossia energia e a investire circa 600 miliardi di dollari negli Usa (anche se non è chiaro se a essere contabilizzati siano anche investimenti già previsti). Da un punto di vista politico e simbolico quella europea è per molti aspetti una capitolazione. Che ne segue peraltro altre, da quella in sede Nato sul tetto al 5% del Pil delle spese per la difesa alla decisione, presa all’ultimo G7, di esentare le multinazionali statunitensi dalla tassa minima globale (la cui applicabilità, peraltro, rimane assai futuribile). E allora perché accettare un accordo talmente squilibrato da essere definito un atto di «sottomissione» dal Primo ministro francese François Bayrou? In grande sintesi, possiamo offrire tre spiegazioni.

La prima è che di accordo squilibrato si tratta perché diverse sono la forza e, quindi, le leve negoziali dei due interlocutori. Trump ha messo sul tavolo, e finanche ostentato, questo aspetto banale delle relazioni transatlantiche oggi. Evidente almeno in parte sul commercio, vista l’importanza del mercato statunitense per tante economie europee così dipendenti dalle esportazioni; ma ancor più visibile nel momento in cui si cessa di isolare la dimensione strettamente economica e la si collega ad altri cruciali dossier transatlantici, a partire dalla sicurezza.

Raggiungere un accordo, per quanto svantaggioso, diventa quindi funzionale a evitare defezioni statunitensi rispetto ad altre questioni, Ucraina e difesa comune su tutto. Ovvero è ritenuto necessario per evitare di mandare in frantumi l’alleanza con gli Usa, riconoscendo – e formalizzando – il ruolo subalterno che in essa continua a svolgervi l’Europa.

La seconda spiegazione rimanda anch’essa a una debolezza europea: la certificata mancanza di coesione dentro l’Ue e la maggior ricettività di alcuni suoi membri alle richieste statunitensi. La Commissione, lo sappiamo, è espressione di una coalizione che rischiava di perdere i pezzi; come spesso è accaduto in passato, uno scontro frontale con gli Usa avrebbe rischiato di lacerare e dividere una Ue già fragile ed esposta, a maggior ragione mancando oggi quel solido asse franco-tedesco che in passato, pensiamo solo alla crisi del 2003, aveva saputo fronteggiare le pressioni di Washington.

La terza e ultima spiegazione ci sollecita infine a soffermarci maggiormente sugli aspetti sostanziali e potenziali dell’accordo. Il 15% è tantissimo (la media precedente si aggirava attorno all’1,5%), ancor più se vi aggiungiamo la significativa rivalutazione dell’euro sul dollaro (più del 10% dall’insediamento di Trump). Sono però tariffe analoghe a quelle dei prodotti di altri storici esportatori verso gli Usa (come il Giappone ad esempio) in un contesto in cui tutto rimane ancora aperto e l’acclarata volubilità di Trump potrebbe produrre nelle settimane e nei mesi a venire ulteriori cambiamenti, incluse progressive esenzioni per molte esportazioni europee.

Nel quale è evidente non vi sarà – a breve e nemmeno nel medio termine – alcuna reindustrializzazione americana e i costi dei dazi ricadranno sui consumatori statunitensi oltre che su quelle aziende americane importatrici di beni intermedi che completano il loro ciclo produttivo negli Usa. Alimentando, questo è il probabile auspicio di Bruxelles, un malcontento diffuso dentro gli Usa che potrebbe punire elettoralmente Trump e costringerlo a ripensare almeno in parte la sua politica commerciale.

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