Brescia, le aree dismesse occupano spazio come 1.540 campi da calcio

Alcune albergano nei fascicoli da talmente tanto tempo da essere state «digitalizzate» durante la grande trasmigrazione dai dossier cartacei a quelli digitali. Altre compaiono su «Opportunity Lombardy», la piattaforma investinlombardy.com ideata dalla Regione, una sorta di «piazza affari degli immobili» disponibili sul mercato.
Le ultime le sta catalogando il Broletto per redigere il nuovo Piano territoriale di coordinamento provinciale (alias Ptcp), formalmente «inceppato» a vent’anni fa (con una sola revisione datata 2014) a cui Caterina Lovo Gagliardi (Forza Italia), consigliera con delega alla Pianificazione urbanistica, sta lavorando. «Loro», le protagoniste di queste storie tutte diverse ma in fondo con un identico epilogo, sono le grandi cicatrici bresciane, ciclopiche aree dismesse che, anziché diminuire, continuano a crescere.
Quanto? Parecchio: la somma - da affinare nei prossimi mesi anche sulla scia dell’aggiornamento dei Piani di governo del territorio che i Comuni stanno redigendo o variando - fa circa 1.100 ettari. Che, tradotto in superficie, è uno spazio grande come 1.540 campi da calcio. Un vuoto a perdere grande come un paese. Letteralmente: si tratta di poco più di 11 chilometri quadrati, esattamente come l’estensione di Comuni come Pontoglio, Barbariga, Visano e Puegnago del Garda. Tanto per farsi un’idea.
Il catalogo del ’900
Nel censimento in corso sono incluse tutte le aree dismesse provinciali, alcune delle quali (una minima parte) un piano di recupero lo stanno affrontando ma non hanno ancora raggiunto il traguardo della rigenerazione completa. Un esempio per tutti è quello della ex caserma Papa di Brescia, dove i lavori in corso faranno nascere la cittadella dei servizi con Guardia di Finanza, Motorizzazione, Agenzia delle Dogane e dei Monopoli.
Ma nel catalogo non ci sono solo le ex caserme. Dalla ex Caffaro di Brescia alla ex Selca di Berzo Demo, passando per la Trade ex Sageter di Darfo Boario o la Metal Fra srl di Pisogne, fino ad arrivare all’ex Pietra Curva in città e all’ex cotonificio di Palazzolo: tutti templi dei fasti industriali del Novecento, la maggior parte dei quali, prima di essere riabilitati, devono essere bonificati.
Di storie come queste ne esistono molte, alcune condividono lo stesso destino di abbandono, nello specifico molte fabbriche e impianti industriali hanno in comune la presenza di un inquinamento delle matrici ambientali e l’evanescenza di chi ha inquinato.
E così le promesse di crescita, i business plan e le prospettive di espansione scompaiono insieme ai fondi per risanare quel che è stato rovinato. Sfuma il principio «chi inquina paga» e tante zone (oltre la metà delle 134 censite) si ritrovano con terreni inquinati, capannoni fatiscenti, colossi di ferro in decadenza, fusti tossici, falde a rischio di contaminazione. Insomma, diventano «siti orfani» del denaro necessario per bonificarli e, quindi, per renderli appetibili sul mercato.
Responsabilità
I siti orfani restituiscono la faccia di una Lombardia avvelenata composta da ex fonderie, cartiere, colorifici, fornaci, discariche industriali (la Vallosa di Passirano ne è l’esempio più eclatante) e discariche abusive, come la ex Cagimetal (più conosciuta come cava Piccinelli, avvelenata dal Cesio 137) o la costellazione di siti che sono nati a Montichiari. In chiave nazionale, a conti fatti, si tratta di oltre centomila ettari di territorio italiano inquinato e abbandonato dall’industria. Un dato che non comprende solo le aree dismesse (ossia quei 1.100 ettari da rigenerare tra città e provincia), ma tutti gli spazi sfruttati, inquinati e poi lasciati a loro stessi.

Chi dovrà fare i conti con queste zone? I Comuni, le Province, le Regioni, lo Stato: insomma, il portafoglio pubblico. E quindi come immaginare il futuro di questi spazi giganteschi? È la domanda che si pongono molte amministrazioni, ma anche tanti comitati e associazioni. Se la pongono gli innovatori (non a caso nella caccia al quartier generale del distretto dell’Innovazione si è partiti proprio dai poli dismessi, come ex Baribbi, ex Santoni, ex Editrice La Scuola), i centri di ricerca, gli incubatori di impresa, i dipartimenti di urbanistica, le accademie di design.
Riempire di nuovi significati e di nuove funzioni questi luoghi non è certo un’operazione neutrale, come non lo è nessun processo di rigenerazione. Con chi immaginare queste aree interdette? Riqualificare una fabbrica come, ad esempio, la ex Caffaro (che diventerà di proprietà pubblica) è un atto che porta con sé un’infinità di possibilità e di scenari. Monitorare la concretezza del risanamento è un dovere, un obbligo imposto dalla legge. Impedire speculazioni e progetti escludenti è invece una scelta politica.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato
@News in 5 minuti
A sera il riassunto della giornata: i fatti principali, le novità per restare aggiornati.
