Le scelte di Israele e l’attacco all’Onu

Nell’ottobre del 1914 dalle colonne del Messaggero, la geniale penna di Trilussa tracciava quella che avrebbe potuto essere la chiave moralizzatrice della guerra, che già imperava nella sua più cupa virulenza e senza nessuna apparente regola di condotta. Nel suo sonetto «Il Re Umanitario» suggeriva di sterilizzare le baionette e disinfettare i proiettili seguendo precise norme igieniche, così la guerra, sebbene distruttiva, sarebbe stata comunque più «umana».
Gli Stati nazionali traevano allora la legittimità all’uso della forza dallo jus ad bellum, legittimo strumento di risoluzione delle controversie interstatali, dando molta forma e poca sostanza alla condotta delle operazioni belliche. Sarà proprio l’inutile strage, come la definì Benedetto XV e successivamente gli orrori della Seconda guerra mondiale a indurre la comunità internazionale a regolamentare l’azione devastatrice del conflitto con lo jus in bello o diritto internazionale umanitario.
Con la nascita delle Nazioni Unite si cercò altresì di stabilire la liceità di una guerra - solo per motivi di difesa - e l’interdizione di una serie di armi, per mitigare gli effetti devastanti della violenza bellica, attraverso l’elaborazione di protocolli specifici, così come di normare ossia porre dei freni a determinate azioni sui teatri bellici. Si stabilisce quindi un quadro non solo concettuale, ma anche normativo sui limiti che il conflitto deve avere.
Per i trasgressori, sulla base delle esperienze di Norimberga e Tokyo, nacque la Corte Penale Internazionale, chiamata a giudicare i crimini più efferati che riguardano la stessa comunità internazionale, come genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità. Molte sono state le violazioni nel recente passato con i casi più emblematici forniti dal Ruanda e dalla ex-Jugoslavia che richiesero addirittura l’istituzione di Tribunali specifici. V’è spesso uno iato tra la normativa e la sua applicabilità.
Tra i Paesi irrispettosi delle norme vengono annoverate principalmente autocrazie, Stati i cui governi sono deboli e ricorrono alla forza per mantenere la sovranità sul proprio territorio o che rivelano ancora velleità di usare le armi quale strumento di risoluzione delle dispute politiche, con tuttavia alcune significative eccezioni anche tra le democrazie, come gli Usa, in seguito ai gravi episodi di tortura commessi nel carcere iracheno di Abu Ghraib nel 2003 o oggi, come qualcuno invoca o prevede per Israele, ovvero per il suo Governo, per i fatti di Gaza e, in ultimo in ordine di tempo, per aver violato la sacralità della quale si permea, per doverosa, supposta, imparzialità delle Nazioni Unite.
Due le ipotesi che tentano di trovare una logica spiegazione all’attacco subìto dalle truppe di Unifil da parte delle truppe corazzate di Tel Aviv. La prima, assolutoria, fa leva sull’inesperienza dell’equipaggio del carro, dovuto al fatto che questo fosse composto da riservisti. Se così fosse rivelerebbe una grande vulnerabilità dello Stato di Israele in termini di disponibilità di uomini. Dopo un anno di guerra è necessario provvedere ad una turnazione degli uomini impiegati sui più fronti, oggi sette, tra diretti e indiretti, e quindi deve fare leva a ogni risorsa disponibile. Però l’attacco reiterato di ieri esclude questa ipotesi, che per qualche ora è stata la giustificazione addotta da Israele.
Statement:
— UNIFIL (@UNIFIL_) October 11, 2024
This morning, UNIFIL’s Naqoura headquarters was affected by explosions for the second time in the last 48 hours.
Una seconda, forse più drammatica, ma certamente realista è di indurre le Nazioni Unite al ritiro dall’area, il cui scopo della missione è di garantire una fascia di sicurezza a sud del fiume Litani, con il preciso disegno politico che vede nel depotenziamento della più forte componente sciita non statuale dell’area l’obiettivo a lungo termine di Tel Aviv.
Ciò facendo si verrebbe a creare un vuoto politico nel sud del Libano che auspicabilmente il governo Netanyahu vorrebbe vedere colmato da forze ad esso più favorevoli o meno ostili. Un depotenziamento di Hezbollah significherebbe altresì privare la Repubblica Islamica di parte della sua influenza regionale e soprattutto, in caso di un deprecabile e pericolosissimo attacco verso il regime iraniano, metterebbe Israele al riparo di un attacco alle spalle, evitando la saturazione del suo sistema di difesa aereo, che potrebbe facilmente realizzarsi se congiuntamente a Teheran, Hezbollah lanciasse sullo Stato ebraico tutto il proprio arsenale missilistico, stimato in oltre centomila razzi.
Si tratta di un gioco assai pericoloso per due motivi: dall’invasione sovietica dell’Afghanistan del ’79 è apparso sempre più chiaro di come sia pericoloso usare le componenti settarie facendole confliggere tra loro per ottenere un tornaconto politico. Il secondo perché si sta realizzando un preciso disegno destrutturando il principio per il quale le operazioni di peacekeeping furono create, in un pernicioso ritorno allo jus ad bellum. Ma così facendo Israele continua ad avventurarsi verso la strada che lo potrebbe rendere, insieme ad altri regimi, uno Hostis humani generis.
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