Israele-Hezbollah, radici di una guerra

Ibrahim Aqil era l’uomo da sette milioni di dollari. Almeno questa la somma che Washington avrebbe pagato per ottenere informazioni che avessero portato alla sua cattura. Gli pseudonimi con i quali era conosciuto, Tasheen, «colui che eccelle», ma anche «chi compie buone azioni» e Abdelqader, in riferimento ad Abdel Kadir, l’eroe algerino noto per la lotta antifrancese e propugnatore di uno Stato teocratico, racchiudono la quintessenza del suo disegno politico: una militanza attiva, combattente, e fondazione di uno Stato Islamico. Ma soprattutto il peccato originale di questo leader di Hezbollah, ucciso in un raid israeliano il 20 settembre fu di essere la mente che concepì e organizzò i sanguinosissimi attacchi contro l’ambasciata Usa a Beirut nell’aprile del 1983 e, successivamente quello alla base della forza multinazionale in Libano, provocando la morte di oltre 300 persone, mentre sul piano strategico introdusse l’elemento dell’attacco suicida nella già complessa conflittualità regionale, permeando la lotta di un carattere religioso e rivoluzionando per sempre il terrorismo mediorientale.
La contrapposizione tra Hezbollah e Israele risale così agli inizi degli anni Ottanta, proprio in coincidenza con l’apparire sul proscenio bellico di un Libano in piena guerra civile di questo nuovo gruppo militante che ideologicamente si abbeverava allo sciismo duodecimano, riportato da poco al potere da Khomeini in Iran, e che faceva del martirio il più alto atto eroico e sacro.
Da allora, grazie al costante sostegno di Teheran, il Partito di Dio è divenuto una minaccia costante, pressante e incombente. Almeno tre i conflitti diretti dal 1985 al 2006, innumerevoli le schermaglie, il lancio di razzi e le reciproche ritorsioni negli ultimi vent’anni. Ora, nel più ampio quadro strategico della guerra del Sukkot, il conflitto scoppiato all’indomani degli attacchi terroristici del 7 ottobre, dopo aver ridotto drasticamente le capacità offensive di Hamas, e la guerra di Gaza derubricata a operazione antiguerriglia, il nuovo fronte è ridiventata la vecchia linea di confine tra il Libano e lo Stato ebraico.
Un fronte che oltre alla dimensione militare, fluttuante ma che esprime un crescendo nell’impiego della forza, ha in sé una valenza politica enorme. Questa risiede prima di tutto nella missione, ormai quasi messianica che si è dato Benjamin Netanyahu, cosciente che sia l’ultima della sua lunghissima esperienza politica, Premier per 17 anni in tre governi differenti, di eliminare l’ultimo degli attori proto-statuali nemici giurati di Israele: Hezbollah e mettere in sicurezza lo Stato da settentrione.
Dei molti nemici statuali delle prime guerre arabo-israeliane resta oggi paradossalmente solo un paese non arabo che non ha mai combattuto direttamente contro Israele, fatto salvo un attacco preordinato e ampiamente annunciato: l’Iran, oggi avviluppato in una profonda crisi strutturale e prossimo a dover affrontare un passaggio politico fondamentale per il suo futuro, l’avvicendamento della Guida Suprema al vertice della Repubblica Islamica. Approfittando quindi di questa sua debolezza intrinseca, del governo iraniano oggi nelle mani di un moderato e, soprattutto, della vulnerabilità nella quale versa l’amministrazione americana, in attesa di conoscere il suo futuro presidente, Netanyahu ha deciso di concentrarsi su un nuovo scenario.
Forte dei successi militari ottenuti con un altissimo prezzo in termini di vite umane contro Hamas, le cui brigate sono state danneggiate fino al punto di essere sciolte, come ha recentemente affermato lo Stato Maggiore israeliano, bloccate ogni velleità di azione in Cisgiordania, nella quale l’Autorità Nazionale Palestinese anela a riconquistare il potere perduto su Gaza, può ora spostare tutta la potenza di fuoco sul fronte nord. L’obiettivo è rendere il Partito di Dio un’organizzazione acefala, priva dei suoi leader e comandanti, e le recenti azioni portate a termine con l’esplosione dei cercapersone e walkie-talkie vanno in quella direzione; disarticolarlo al punto di renderlo inefficiente per almeno alcuni anni.
Message for the people of Lebanon: pic.twitter.com/gNVNLUlvjm
— Benjamin Netanyahu - בנימין נתניהו (@netanyahu) September 23, 2024
A differenza di Hamas, però Hezbollah può contare su un arsenale molto più sofisticato, su una rete di appoggi internazionali, su fonti di finanziamento floride, poiché legate a economie illegali. Ma soprattutto profondamente radicato sul territorio e nel territorio libanese, fungendo da Stato nello Stato, in assenza di un efficiente governo centrale a Beirut. Questa la vera forza di Hezbollah, non solo partito politico, ma di governo, almeno nelle molte aree sottoposte al suo controllo: dalla Valle della Bekaa nella parte nord-orientale del paese, sino alle regioni meridionali, al confine con Israele. Una forza politica che difficilmente potrà essere vinta con la potenza delle armi, anche le più sofisticate e l’ultimo obiettivo strategico di Netanyahu rischia così di rimanere solo una tragica aspirazione delusa.
Michele Brunelli – Docente di Storia ed istituzioni afroasiatiche, Università di Bergamo
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