I paradossi del Medioriente

Talvolta v’è qualcosa di irrazionale nella guerra, se non addirittura di paradossale
Distruzione a Gaza - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Distruzione a Gaza - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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Talvolta v’è qualcosa di irrazionale nella guerra, se non addirittura di paradossale. L’intento strategico di Hamas quando ideò e mise in pratica l’attacco del 7 ottobre era di scatenare un conflitto su più fronti: da quello occidentale, direttamente con i suoi miliziani, Sinwar avrebbe voluto portare la guerra ad est, con il sollevamento della Cisgiordania e, contando su due anelli fondamentali della Catena di Resistenza concepita e guidata da Teheran, a nord attraverso Hezbollah e a sud con un attacco dei ribelli yemeniti.

Si sarebbe così prefigurata la necessità per lo Stato Maggiore israeliano di suddividere le truppe sui diversi scenari, indebolendo la loro potenza di fuoco e rendendo meno pesante una reazione diretta che altrimenti si sarebbe concentrata esclusivamente su Gaza.

Fu un calcolo ingenuo, che non tenne conto dell’esperienza del lungo scontro che oppose dal 1948 sino al 1979 un gruppo di Stati arabi ad Israele. Più volte eserciti di Stati sovrani, sostenuti e riforniti militarmente dall’Unione Sovietica provarono a eliminare quello che era percepito come un’entità aliena nella regione. Invano. Pur attaccandolo contemporaneamente. Oggi, ed è il primo paradosso, la situazione si pone in maniera uguale ma contraria.

Ridotta enormemente la capacità militare di Hamas, Netanyahu sembra risoluto ad approfittare dello stato di guerra per portare a compimento quello che sarà il suo ultimo atto politico da Primo Ministro e che, una volta giunta la fine delle ostilità, porterà probabilmente a sua difesa nell’inchiesta che lo vedrà coinvolto per non aver saputo prevedere gli eventi del 7 ottobre: ridurre drasticamente le potenzialità di tutti quegli attori non statuali che oggi minacciano la sicurezza del Paese, decapitando le singole dirigenze politiche e militari, con una partita che deve necessariamente chiudersi prima delle elezioni statunitensi, poiché qualora vincesse la Harris, Netanyahu non avrebbe quel margine di manovra che potrebbe ottenere con Trump.

Ciò sulla base della politica mediorientale che il presidente repubblicano intraprese durante il suo mandato. Una minaccia quella espressa da Hamas, Hezbollah, gli Houthi e le milizie irachene non solo per Tel Aviv, ma anche per molti degli stessi Stati arabi dell’area: dall’Egitto, da sempre alle prese con la Fratellanza musulmana da cui Hamas trasse forza ideologica e appoggi militari; all’Arabia Saudita e dai molti emirati del Golfo, sunniti, che vedono nell’elemento sciita eterodiretto dall’Iran un fattore di destabilizzazione interna.

Qui il secondo paradosso: gli interessi di sicurezza di Israele coincidono con quelli dei suoi ex nemici arabi e le azioni militari intraprese da Tel Aviv arrivano a essere funzionali alla loro stessa sicurezza: destrutturare i gruppi militanti, ma soprattutto indebolire se non demolire l’asse filo-iraniano della Resistenza. Lo sono al punto che gli Accordi di Abramo, basati su intese economiche assai proficue per i firmatari, ricomprendevano quello che sarebbe potuta essere una svolta epocale nelle relazioni del Medio Oriente: la normalizzazione delle relazioni tra israeliani e sauditi.

Il terzo paradosso prende forma dalla questione sul futuro di Gaza, che potrebbe riportare in auge gli Accordi - fermati da Hamas con il suo attacco e sulla base di mutue convenienze politico-economiche - e un affare della ricostruzione della Striscia calcolato oggi per difetto in 50 miliardi di dollari, spingere la maggiore economia dell’area - quella saudita - a trovare una nuova forma di dialogo con il governo israeliano. La Gaza di domani deve essere oggetto di discussione dell’oggi.

Ogni soluzione contemplerà il placet politico di Israele che dovrà concordare con quello economico-politico degli Stati del Golfo, il tutto supervisionato da Washington. Per Israele l’errore strategico da non commettere è trovarsi invischiato in una lunga guerra di logoramento in Libano, un conflitto che non sarebbe in grado di vincere, come la storia recente ha comprovato, ma rischierebbe di accelerarne l’implosione. E l’avere un vuoto assoluto di potere ai propri confini ha già dimostrato tutta la sua pericolosità: Somalia, Libia e Iraq ne sono i drammatici testimoni.

Da qui la necessaria decisione di condurre operazioni terrestri limitate nel tempo e nello spazio alla parte meridionale del Paese dei Cedri. Per estensione geografica, popolazione e per forze sul campo il Libano non è Gaza. L’errore politico da evitare sarà di non provvedere alla ricostituzione di solide forme locali di democrazia, ma lasciare i territori sconvolti dalla guerra come macerie politiche e sociali, rendendoli focolai di instabilità perenni.

Due i convitati di pietra: Ankara e Teheran, entità statuali non arabe che si ergono a tutela dei Palestinesi, con relazioni complicate con i loro vicini e che per ora sembrano paradossalmente alieni alla riprogettazione degli equilibri di un nuovo Medio Oriente. Relegati ai margini tanto da Israele e gli Stati arabi, quanto da parte della comunità internazionale, quest’ultima soprattutto per l’Iran. Ma dai quali, a guerra finita, non si potrà prescindere.

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