L’Onu e l’incapacità di riformarsi

È tempo di summit annuale all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. E come ogni anno, fioccano i commenti e le critiche a un’organizzazione incapace di adempiere ai suoi compiti, obsoleta in tanti suoi meccanismi di funzionamento (a partire dalla composizione del Consiglio di Sicurezza e dal diritto di veto dei cinque membri permanenti) e in patente crisi di legittimità.
Commenti e critiche più che legittimi, questi, anche se a volte si tende a ignorare il contributo che l’Onu e il sistema di agenzie che le fanno capo continuano a dare su molteplici dossier, dall’aiuto ai rifugiati alla campagna contro l’Aids, dai programmi di sostegno all’infanzia (Unicef) a quelli per la lotta alla fame e alla malnutrizione (Fao e World Food Program), solo per citarne alcuni tra i più noti. Le difficoltà correnti dell’Onu e anche il crollo del rispetto di cui gode, con Israele e i suoi sostenitori che possono addirittura accusare i suoi vertici di pregiudizi antisemiti, sembrano essere il prodotto di tre dinamiche che, interagendo, si alimentano le une con le altre.
The general debate of the 79th session of the General Assembly is underway at UN Headquarters.
— United Nations (@UN) September 25, 2024
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La prima rimanda alla struttura dell’organizzazione, la seconda al contesto internazionale corrente e la terza al ruolo degli Stati Uniti. Costruite e definite durante la Seconda Guerra Mondiale, le Nazioni Unite hanno una struttura che ancor riflette quelli che erano i rapporti di potenza, gli equilibri globali e le esigenze di allora.
L’Organizzazione, si diceva, molto ha fatto per evolvere ed estendere il suo raggio d’azione laddove l’Assemblea Generale accoglieva i tanti nuovi Stati sorti nel dopoguerra (passando dai 51 membri originari agli attuali 193) e diventava davvero il palcoscenico dal quale i leader mondiali parlavano a un’opinione pubblica vieppiù globale. E però il suo strumento esecutivo primario, il Consiglio di Sicurezza, è rimasto in larga misura immutato, con i cinque, intoccabili membri permanenti - Usa, Urss-Russia, Cina, Regno Unito e Francia - a continuare a beneficiare del diritto di veto e di un privilegio fattosi sempre meno giustificabile e comprensibile.
Privilegio peraltro esercitato e abusato nei momenti di crisi ovvero in quelli in cui prevale una logica conflittuale nei rapporti tra le principali potenze dell’ordine globale. In momenti, cioè, come quello in cui stiamo vivendo.
Nell’ultimo decennio vi è stata una crescita esponenziale dei veti al Consiglio di Sicurezza, che è parsa riportare indietro di decenni le lancette della storia. A esercitarli, questi veti, sono stati sempre tre Stati - Usa, Russia e Cina - con Mosca a fare la parte del leone. Qui, la causalità va in parte rovesciata: l’Onu funziona poco e male non (solo) a causa delle sue tare d’origine, ma perché il contesto non lo permette più. Le dinamiche di frammentazione dell’ordine internazionale, la crisi della governance e la rinnovata competizione di potenza - in primis tra Stati Uniti e Cina - contribuiscono insomma a rendere impotente e screditata l’Organizzazione.
Anche perché, terzo e ultimo aspetto, debole, contestato e inefficace è l’egemone che la dovrebbe guidare: gli Usa stessi. Una debolezza visibile anche nell’intervento di Joe Biden all’Assemblea, due giorni fa. Appassionato e per certi aspetti finanche commovente. E al tempo stesso anacronistico, nel rilanciare con ottimismo gli schemi del multilateralismo cooperativo o nel celebrare la forza delle democrazie.
E anche in una certa misura reticente nel sorvolare sui danni che i doppi standard statunitensi - rispetto a regole e principi che si pretende vadano applicati ad altri, ma non a sé stessi - hanno fatto e continuano a fare al sistema internazionale e all’Onu medesimo. Quel che ne è esce è un micidiale combinato disposto di un egemone non egemonico, di un mondo pericolosamente frammentato e di un’istituzione vecchia e incapace di riformarsi.
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