Il problema della guerra e la vera sfida della pace

Per scoprire quanto la guerra ci sia vicina basta scrutare i nostri cieli. Era così ai tempi della Guerra fredda con i caccia che sorvolavano Ghedi, è stato così durante le fasi alterne delle guerre nel Golfo e in Medio Oriente, ed è così in questi giorni, con il rombo sordo del Globemaster che fa tappa all’aerobase bresciana.
Attorno al gigantesco cargo c’è il cupo alone della bomba atomica. Nessuno può dire se trasporta altre bombe da accatastare a Ghedi, una delle sei basi europee dotate di arsenale nucleare. Potrebbe anche essere che il tour del gigante americano volante, fra Tacoma, nello Stato di Washington, Ramstein in Germania e Volkel in Olanda, faccia parte della strategia della finzione, che stia tra i gesti destinati a mostrare i muscoli. Ma anche questo non sarebbe rasserenante, perché significa che il clima si sta surriscaldando.
Ieri Putin direttamente ha ordinato, durante il Consiglio di sicurezza convocato al Cremlino, di prepararsi a riprendere i test nucleari. Naturalmente aggiunge che questo accadrà solo se gli Stati Uniti avvieranno da parte loro i test. Una risposta speculare alle dichiarazioni di Trump, che in un post sul suo social - ognuno usa le armi che più gli sono congeniali - tre giorni fa aveva annunciato il suo ordine al Pentagono di prepararsi ai test nucleari, perché la Russia lo starebbe facendo. La sfida è a chi cede per primo alle provocazioni. Intanto, gli uni e gli altri, per dimostrare che stanno facendo sul serio, indicano dettagli e luoghi dei possibili, eventuali test. Servizi segreti e spie sono al lavoro.
Questa escalation verbale potrebbe esaurirsi in dichiarazioni roboanti. Tutti, in cuor nostro, lo speriamo. Segnano tuttavia un cambiamento totale di orizzonte. Con la fine della Guerra fredda e il crollo del Muro di Berlino si pensava d’aver riposto nei testi di storia l’ombra angosciosa delle bombe atomiche. Ora si torna indietro di trent’anni e in una condizione ancor più caotica e precaria.

L’Unione sovietica, anche per oggettive difficoltà economiche, aveva cessato i test nucleari nel 1990, gli Usa nel ’92, Cina e Francia nel ’96. I test nucleari sono stati la forma più elevata di reciproca minaccia ai tempi della Guerra fredda, poi si è allestito un trattato che li proibisce, anche se non ha avuto totale adesione. Ora Putin e Trump sembra non si facciano troppe remore ad infrangerlo. Non sono fulmini a ciel sereno le loro dichiarazioni. Intanto da tempo si lascia intendere che, in contesti particolari e in zone limitate, si potrebbe fare uso delle bombe nucleari tattiche. Linguaggio che gli esperti di cose belliche maneggiano, talvolta con eccessiva disinvoltura, ma che per tutti gli altri rappresenta la materializzazione di un incubo. Il nucleare tattico rischia di somigliare alle bombe intelligenti: quando vengono sganciate colpiscono quel che colpiscono e il resto finisce per essere classificato come «effetti collaterali». Già il parlarne è pericolosissimo, perché sdogana il concetto, abitua all’idea, e prepara il terreno all’uso reale dei mezzi sempre più spesso evocati.
Anche la strategia della provocazione non è una novità. E va a ondate. Ci sono i giorni dei caccia che sconfinano nei cieli vicini, poi i voli di misteriosi droni su luoghi strategici, che si accompagnano alle grandi manovre, da sempre il campo preferito di chi prepara la guerra. Saggiano le reazioni avversarie, sono le forme estreme della diplomazia. Ma anche su questo versante ci sono linee rosse che è meglio non superare. In questi giorni il clima generale segna un livello allarmante. Donald Trump mostra i video degli sbarchi dei marines nei mari dei Caraibi. Vladimir Putin, in tuta mimetica, accarezza il razzo invincibile. La Cina ha appena fatto sfilare tutta la sua potenza. La Terza guerra mondiale profeticamente evocata da papa Francesco mostra tutti i suoi pezzi e lascia intravvedere come si potrebbero unire nel caos geopolitico globale.
Che significato ha, in questo contesto, il Festival della pace che Brescia sta per vivere? No, non sono parole al vento e buone intenzioni destinate a compiacere i nostri animi. Proprio le minacce nucleari sollevate in questi giorni dimostrano che la guerra inizia con le parole. E sono le parole di guerra a spianare la strada alle armi. Daniel Bar-Tal, psicologo politico israeliano studioso dei conflitti «intrattabili», in un incontro che ha anticipato il Festival, ha spiegato come la guerra nasce nella nostra testa e nella testa si possono trovare i modi per costruire la pace. E ancor più significativo è che il tema posto dall’edizione di quest’anno riguardi l’Europa. Il nostro continente è stato il teatro di mezzo secolo di guerre tremende e dalle macerie dell’ultimo conflitto mondiale ha faticosamente saputo costruire un lungo periodo di pace.
L’Europa sa quanto faticoso sia parlare di pace, ma sa anche che si può fare. Mentre la pace sembra scomparsa dall’orizzonte internazionale e la guerra è stata riabilitata come quasi inevitabile compagna delle sorti umane, mentre la forza sembra essere diventata l’unico metro di misura e la propaganda è la protagonista dello scacchiere mondiale, ogni parola di pace non è sprecata. È l’unica arma che resta a ciascuno di noi.
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