Per innovare e costruire bisogna anche liberarsi da ciò che è obsoleto

Nella più aggiornata mappa globale, l’Europa si mostra come un gigante che avanza a passo lento e respiro affannato, benché vanti una storia gloriosa. Il Vecchio Continente fatica a conciliare gli interessi di ogni singolo Stato e palesa un’insufficienza sistemica nel digitale e più in generale per tutto ciò che rientra nell’alveo dell’innovazione. Se negli ultimi trent’anni, segnati dalla globalizzazione, la fabbrica è stata il fulcro dello sviluppo comunitario, oggi Cina e Stati Uniti annoverano un vantaggio consistente nei processi e nei business legati a nuove tecnologie che si prospettano rivoluzionarie, come l’intelligenza artificiale.
In questo quadro vanno inseriti anche alcuni eventi inattesi che, sostanzialmente, hanno contribuito a spostare gli equilibri internazionali: a partire dal Covid fino ad arrivare alla guerra in Ucraina e alle tensioni in Medio Oriente. Tant’è che la deglobalizzazione che sta caratterizzando lo scenario mondiale è un fenomeno totale: culturale e sociale, politico e finanziario, tecnologico e industriale. E se l’Europa soffre questa trasformazione, nel panorama generale l’Italia risulta sempre più piccola e incapace di rimanere al passo dei tempi.
A che punto è l’Italia
Il Belpaese ha poche grandi imprese, tutte dedite ad attività molto legate ai fasti del passato. È vero che le nostre aziende di piccola e media dimensione esprimono un’encomiabile dinamismo, grazie anche alla loro flessibilità nel rispondere alle nuove esigenze dei mercati. Ma non basta più: è cambiato il mondo e pure gli italiani.

I giovani scelgono di andarsene a studiare, lavorare e vivere all’estero, mentre il tasso di natalità del nostro Paese si è ridotto al di sotto di 1,2 figli per donna. Da mesi si discute sull’importanza strategica delle terre rare, ma la penuria che sempre più di frequente angoscia le nostre imprese è quella della manodopera specializzata. Un tempo alle crisi economiche e finanziarie facevano seguito periodi bui contrassegnati dagli spettri della disoccupazione e dell’inflazione. Oggi, paradossalmente, il rischio è che la crisi sia generata dalle richieste aziendali che non trovano i corrispondenti profili professionali di cui hanno bisogno. Metà dei posti ricercati resta senza riscontro. E non è solo una questione di bassi salari, ma anche dell’inconsistenza di un ecosistema che non produce più competenze allineate all’evoluzione dei mercati.
Bilanci Brescia 2024 analizza i risultati di oltre mille imprese bresciane che nell’ultimo triennio hanno fatto tesoro della loro storia e che spesso fanno conto solo su sé stesse e sui propri collaboratori. L’Italia si è più volte accontentata di ammirare il successo internazionale di queste aziende nel mondo della meccanica, della siderurgia, dell’agroalimentare o dei metalli. Per certi versi se il nostro Paese vorrà essere ancora competitivo dovrà imparare da esse: a cominciare dalla capacità di creare comunità, collettività, connessioni che sostengono la propria crescita.
Investire nel futuro
L’Italia ha generato sviluppo e ricchezza quando è stata in grado di suscitare voglia di riscatto, come accadde nel Dopoguerra. Se non c’è «distruzione creatrice» non c’è crescita, professava l’economista austriaco Joseph Schumpeter. Molte volte si tenta di conservare e ci si chiude in noi stessi, prigionieri della paura del futuro. Per innovare e costruire opportunità e benessere bisogna anche liberarsi di ciò che è vecchio e obsoleto. E allora la domanda che dovremmo porci è se stiamo facendo di tutto per stimolare, soprattutto nei giovani, una nuova imprenditorialità. O se, al contrario, la stiamo scoraggiando. Nel mondo si stima vi siano quasi due miliardi di giovani, che mantengono la speranza di un domani migliore. I governi dovranno essere chiamati a parlare più di investimenti che di nuove tasse (leggi anche dazi); più di ricerca e sviluppo che di difesa dei risultati raggiunti.
Per quanto riguarda l’Italia, ad esempio, vale la pena rimuovere quegli ostacoli, soprattutto burocratici, all’innovazione, che hanno impedito ad esempio la piena attuazione di Transizione 5.0. A meno che non si voglia perdere definitivamente il treno dei grandi Paesi.
Sinora ci siamo affidati alle rilevanti performance dell’industria manifatturiera che hanno portato il meglio del Made in Italy nel mondo. Le nostre macchine utensili altamente innovative, ad esempio, sono in ogni angolo del globo, ma se non smettiamo di riconoscerci come un’Italia perennemente in emergenza e incapace di fare sistema, il rischio è il declino.

L’Europa ce lo ha detto chiaramente, il mondo è nel pieno di due transizioni, strettamente intrecciate, quella digitale e quella ecologica.
Anche se temiamo l’imposizione dei dazi Usa, non possiamo trascurare il fatto che le nostre imprese già in passato sono state in grado di affrontare sui mercati ogni tipo di tempesta. Ce la faranno anche stavolta, perché hanno accettato la sfida della concorrenza mondiale. Anche l’Italia dovrebbe fare altrettanto.
Un recente rapporto sull’«Italia generativa» di Unioncamere fa riferimento alla «distruzione creatrice» di Schumpeter, senza la quale «le forme economiche esistenti, irrigidendosi, spezzano la tensione verso l’avvenire».
Una comunità, di conseguenza, può dirsi «generativa» quando è spronata dal desiderio di ricreare continuamente, adattandole al tempo e allo spazio, le condizioni più favorevoli alla sua maturazione sociale e culturale.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato
@Economia & Lavoro
Storie e notizie di aziende, startup, imprese, ma anche di lavoro e opportunità di impiego a Brescia e dintorni.

