Tra Cina e Stati Uniti tregua fragile e piena di contraddizioni

È probabilmente una tregua più che un accordo o anche solo la sua premessa, quella prodotta da questo primo mini-summit tra Donald Trump e Xi Jinping. Al quale conseguono una serie d’impegni – dai dazi reciproci all’accesso ai minerali critici cinesi – potenzialmente importanti, ma anche immediatamente reversibili, come ben abbiamo visto in questi dieci, turbolenti mesi di Presidenza Trump. Cosa ci dice questa «tregua», sul sistema internazionale così come sulla cruciale relazione tra le due superpotenze di oggi? Che contraddizioni evidenzia, a quali pericoli mette temporaneamente la sordina e quali nodi lascia irrisolti?
Tre, in grande sintesi, sono le considerazioni possibili. La prima è che quella tra Stati Uniti e Cina è oggi una interdipendenza nella quale la dimensione competitiva prevale decisamente su quella collaborativa. Dal commercio agli investimenti ai trasferimenti di tecnologia, l’integrazione – e in teoria gli interessi condivisi e i legami non scioglibili – rimangono profondi e finanche strutturali. E però, dentro una condizione vieppiù antagonistica, entrambi gli attori cercano di affrancarsi da quei fattori di dipendenza reciproca che ritengono in una certa misura sacrificabili. Promovendo così un parziale disaccoppiamento in vari ambiti.
Lo vediamo bene, ad esempio in volumi di scambi commerciali, e in un deficit statunitense, che hanno visto una significativa riduzione negli ultimi anni. Così come nella drastica contrazione degli investimenti esteri diretti, in particolare quelli cinesi negli Usa. O, infine, nella deliberata scelta di Pechino di alleggerire gradualmente la sua esposizione in dollari, liquidando soprattutto titoli del Tesoro statunitense (trainato anche da questa decisione, negli ultimi anni vi è stato un significativo calo della percentuale di riserve di dollari delle banche centrali, passata da quasi il 70 a poco più del 50% del totale).
.@POTUS shakes hands with China's President Xi after their historic meeting in South Korea. pic.twitter.com/O3DOxWIJ7d
— Rapid Response 47 (@RapidResponse47) October 30, 2025
La seconda considerazione è che permangono ambiti in cui il disaccoppiamento non è possibile: interdipendenze talmente profonde da poter essere sciolte né rapidamente né unilateralmente, come fatica talora a comprendere Donald Trump. La forza impareggiabile del mercato americano – dell’«impero dei consumi», nell’efficace definizione che ne diede quasi vent’anni fa lo storico Charles Maier – non è venuta meno, tanto che la Cina cerca continuamente di sottrarsi ai dazi e ad altre politiche discriminatorie statunitensi riorientando stadi non primari delle catene di valore – fasi successive di un processo produttivo iniziato in Cina – verso paesi terzi (si spiega anche in questo modo l’autentica esplosione dell’attivo commerciale maturato dal Vietnam nei confronti degli Usa).
La Cina dispone in condizioni quasi monopolistiche di risorse fondamentali, a partire da minerali critici per tanti processi produttivi ad alto contenuto tecnologico; e le può usare come strumento di pressione se non di ricatto. Dal clima alla sicurezza al rischio di nuove pandemie, infine, numerosi altri incentivi alla collaborazione continuano a esistere.
E questo ci porta alla terza e ultima considerazione, banale ma indispensabile: è quella tra Stati Uniti e Cina la relazione più importante nel contesto internazionale corrente. Perché vi è un egemone, gli Usa, sfidato come non avveniva dai tempi della prima Guerra Fredda. Perché la storia ci insegna che il rischio di escalation involontarie, di percezioni errate, di comportamenti fraintesi è, nelle relazioni internazionali, sempre elevatissimo. E perché su alcune questioni nodali, la profondità dell’interdipendenza sino-statunitense continua a essere tale che provare a scardinarla unilateralmente, o non gestirne con attenzione i tanti elementi delicati, rischia di far precipitare crisi ingestibili e potenzialmente pericolosissime.
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