Elio Germano, chiesa stracolma per il racconto sullo zio missionario

Avvolto dalle immagini bibliche che ornano la chiesa di San Cristo, il «Teatro dell’anima» ha reso presente, vicina e attuale, la concreta traduzione del messaggio evangelico nella lontana vita dei Das, i disprezzati fuori-casta del Bangladesh. Si firma «padre Antonio Germano Das» il missionario saveriano che vive e opera da quasi cinquant’anni tra loro: ha dato voce ai suoi racconti epistolari il nipote Elio, interprete magistrale pluripremiato di personaggi iconici, da Ligabue a Leopardi a Berlinguer, con l’incisiva sobrietà che si addice a questa figura esemplarmente umile, nel suo fattivo impegno. «Se avessi saputo, non avrei permesso»: questa la reazione riportata dal nipote, all’annuncio dell’iniziativa, che ha preso il titolo da parole sue: «Tra gli impuri ho vissuto quasi cinquant’anni. Amandoli, mi sono purificato».

Lo spettacolo

Una chiesa stracolma ha accolto con scrosci d’applausi la breve sosta a Brescia dell’attore, per la proposta dell’associazione «Missione oggi» dei padri Saveriani, nel ciclo di rappresentazioni a tema spirituale. In prima persona, con le parole dello zio, Elio Germano ne ha ripercorso 86 anni di vita, dagli anni difficili dell’immediato dopoguerra, per il pastorello di un minuscolo gregge che da chierichetto ha incominciato ad avvertire, con il tramite del suo parroco, l’attrattiva della vita missionaria.

Le parole disegnano immagini e atmosfere: del primo arrivo in Bangladesh tra «acqua e acqua dappertutto e gente, gente dappertutto. E poi gli odori»; della prima esperienza di lavoro comunitario per dare tre acri di terra e 75 casette al villaggio sperduto su un’isola fluviale, nella missione che nessuno voleva affrontare, tra gli «intoccabili» della casta degli antichi conciatori di pelli.

La missione

In una fase più matura – osserva padre Antonio – volevo attuare una missione disancorata dagli aiuti da dare alla gente e più ancorata sull’incontro, con la gente». Con questo spirito è proseguito l’impegno tra i fuori-casta registrati all’anagrafe con il cognome Das, che significa «schiavo», là dove «la discriminazione di casta è più che mai viva», nonostante la Costituzione indiana l’abbia abolita.

«L’educazione intesa come acquisizione e maturazione di quei valori che fanno dell’uomo una persona rimane una priorità nella nostra azione – dice padre Antonio del progetto che ha già formato migliaia di studenti, portandoli anche ad occupare posti importanti della società civile –. Qualcosa è già cominciato, ma ci vorrà ancora qualche generazione prima che le cose maturino fino allo stadio in cui i nostri, non più stigmatizzati come fuori-casta ma uomini liberi tra uomini liberi, gestiranno il loro destino. Io morirò con dentro il sogno, qualcun altro ne vedrà la realizzazione».