Coronavirus, cento giorni dal «paziente 1» nel Bresciano

Lo scorso 22 febbraio venne ricoverato a Manerbio il primo bresciano positivo e il dramma ebbe inizio
Disperazione in corsia, un’immagine che testimonia cosa ha significato il Covid nel Bresciano - © www.giornaledibrescia.it
Disperazione in corsia, un’immagine che testimonia cosa ha significato il Covid nel Bresciano - © www.giornaledibrescia.it
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Cento giorni di coronavirus. Cento giorni in cui tutto è cambiato, in cui la realtà è mutata in ogni sua forma: la quotidianità segnata da distanze e misure anticontagio, le scuole chiuse, le fabbriche fermate, il terziario rivoluzionato dalla prassi dello smart working.

Ma soprattuto, il territorio bresciano in primis segnato da dolore, lutti, un'ondata di contagi spaventosa che come uno tsunami ha travolto ospedali e sistema sanitario.

Sembra ieri. O forse pare trascorsa un'eternità. In realtà sono passati cento giorni, poco meno di un terzo dell'anno da quel 22 febbraio in cui il primo paziente bresciano noto affetto da Covid-19 da Pontevico è giunto all'ospedale di Manerbio. Segnando l'inizio della fase più cruenta della pandemia nella nostra provincia, una delle più colpite in assoluto a livello nazionale.

Ha avuto così inizio un vero e proprio assedio agli ospedali, dal Civile alla Poliambulanza, dal Mellini di Chiari a quello di Desenzano passando per Manerbio ed Esine per citare i principali, con reparti cancellati e oltre l'80% dei posti letto riconvertiti alla gestione dei pazienti affetti da coronavirus. Brescia è stato uno degli epicentri della pandemia globale, tanto da meritare purtroppo persino la ribalta di quotidiani internazionali.

Ci sono state le mille emergenze nell'emergenza con i dispositivi di protezione individuale (per i sanitari prima e per gli utenti poi) che non si trovavano. C'è stata la gara di solidarietà per aiutare la macchina dell'emergenza (pernsiamo ad «aiutiAMObrescia»), c'è stato il lockdown, con gli spazi urbani resi surreali da un vuoto e da un silenzio spettrali, infranti solo dalla corsa e dalle sirene delle ambulanze.

Ci sono stati gli eroi che al posto della corazza indossavano un camice e una mascherina (quando c'era), ci sono stati i tablet divenuti preziosi per garantire un contatto umano tra chi soffriva in un letto d'ospedale e chi attendeva a casa. C'è stata l'intraprendenza tutta bresciana per mettere in campo soluzioni che ovviassero alla mancanza di strumenti preziosi (pensiamo alle valvole o ai respiratori creati con la stampa 3D) e la riconversione di intere aziende alla produzione di mascherine e presidi fondamentali. 

Ci sono state le tragedie nelle Rsa e la malattia affrontata tra le mura di casa, per paura di un viaggio verso gli ospedale che potesse essere senza ritorno. E ci sono state purtroppo le vittime. Tante, tantissime, a migliaia. Le croci senza fine, in larga parte ancora da quantificare, con numeri ufficiali assolutamente parziali da rivedere pesantemente al rialzo. E con una teoria di bare che resterà nella memoria collettiva, di un tempo che persino i funerali ha negato agli affetti di chi se n'è andato.

C'è stata la corsa ai tamponi e ai test. Ci sono state le polemiche e i dubbi. Le incertezze e la paura. Una scuola sospesa. C'è stata infine una riapertura fatta di tante riaperture. Quelle che stiamo ancora vivendo. Come quella lotta al coronavirus che è tutt'altro che finita. E che impone a tutti, oggi più che mai, grande senso di responsabilità.

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