Vent’anni fa il delitto Donegani: Gatti e il caso che segnò Brescia
Fu il giallo dell'estate, il caso che portò Brescia alla ribalta della cronaca nazionale. Sono passati vent'anni da quell’agosto del 2005, quando la città divenne protagonista di un’indagine il cui racconto e interesse fu destinato a varcare i confini provinciali e a imprimere nella memoria collettiva termini come «villetta», «zii» e, soprattutto, «mattatoio». E un nome, quello di Guglielmo Gatti, un uomo tutto «casa e scuola», con una sola compagna: la solitudine.
La scomparsa
La storia ha inizio tra la fine di luglio e l’inizio di agosto del 2005. Aldo Donegani, 77 anni, e Luisa De Leo, 61, marito e moglie che abitano nella villetta bifamiliare al 15 di via Ugolini, scompaiono nel nulla.
È lunedì 1° agosto quando un nipote, Luciano De Leo, arrivato dalle Marche per trascorrere alcuni giorni di vacanza, lancia l’allarme per la scomparsa degli zii. Di Aldo e Luisa non c’è traccia: la casa è in ordine, l’auto è regolarmente in garage così come le biciclette, nel frigorifero c’è una piccola spesa che non lascia pensare a una partenza programmata, ma nemmeno improvvisa. Nessun messaggio, nessun biglietto.
Sono stati visti l’ultima volta sabato 30 luglio dai vicini di casa, che li hanno notati in giardino. E sempre sabato 30 luglio hanno parlato al telefono col nipote Luciano, appuntato dei carabinieri, per concordare l’arrivo a Brescia e le successive vacanze. Poi, il silenzio.

Nemmeno l’altro nipote, Guglielmo, ingegnere nucleare di 41 anni che vive al piano superiore, ha notizie degli zii. Insieme – è martedì 2 agosto – formalizzano ai carabinieri la denuncia di scomparsa. In pochi giorni proprio Guglielmo viene interrogato più volte dalle forze dell’ordine, che nel frattempo hanno avviato ricerche e indagini.
È il 4 agosto quando Gatti si presenta davanti alle telecamere di Teletutto, stringe tra le mani la foto degli zii sorridenti, abbracciati, al mare. «Chi ha notizie – dice – ci faccia sapere». Racconta con apparente stupore e disappunto la stranezza di un allontanamento non annunciato. Parole, pronunciate al microfono di Nunzia Vallini, che contribuiranno a imprimere nella memoria collettiva il volto e la voce del nipote condannato poi all’ergastolo per il delitto degli zii.
La svolta: il ritrovamento dei resti
Due settimane più tardi i resti dei coniugi Donegani vengono ritrovati in un dirupo al passo del Vivione, in Valcamonica, tra le province di Bergamo e Brescia.
Come ricostruirà in una conferenza stampa fiume il procuratore capo Giancarlo Tarquini, la svolta arriva «perché eravamo sulle tracce del Gatti, e là dove lui è stato visto sono stati trovati i corpi dilaniati dei due infelici coniugi Donegani».
Il riferimento è a due testimonianze chiave. La prima è quella di un’albergatrice di Breno, che racconta di aver avuto per ospite proprio Guglielmo Gatti nella notte tra il 30 e il 31 luglio: «Una persona tranquilla», racconta la donna, che non ha mai destato sospetti. La seconda è quella di un ragazzino di quattordici anni, che riferisce di aver riconosciuto Gatti alla guida di una Fiat Punto Blu contro cui sono quasi finiti lui e i genitori durante un viaggio lungo la stretta strada che da Paisco Loveno porta in val di Scalve.
Le ricerche si concentrano così nei boschi al passo del Vivione: il 17 agosto, in diversi sacchi neri, vengono trovati i corpi di Aldo Donegani e Luisa De Leo, spogliati, fatti a pezzi e gettati via. Mancano le teste. Insieme ai cadaveri, vengono ritrovate delle cesoie.
In serata, al termine dell’ennesimo interrogatorio, scatta il fermo per Guglielmo Gatti, difeso dall’avvocato Luca Broli. È accusato di duplice omicidio, aggravato dai futili motivi, oltre che di occultamento dei due cadaveri e del vilipendio sugli stessi.
Due giorni più tardi i carabinieri della Sezione investigazioni scientifiche di Brescia scattano la foto che diventerà uno dei simboli di questa storia: nel garage, il luminol risplende in corrispondenza di grandi tracce di sangue, che il dna conferma appartenere ad Aldo e Luisa Donegani. Ne deriva una delle parole chiave del duplice delitto: il «mattatoio».

Gli indizi
Gli indizi a carico di Guglielmo Gatti sono via via aumentati con l’avanzare delle indagini. Tra le prove cruciali, uno scontrino ha collegato Gatti all'acquisto di sedano. Lo stesso sedano, come ricostruito grazie al codice a barre, rinvenuto accanto ai sacchi dove sono stati occultati i resti dei coniugi.
Il nipote aveva poi comprato cesoie identiche a quelle usate per lo smembramento dei corpi, oltre a una quantità insolita di segatura, probabilmente impiegata per ripulire le tracce di un delitto così efferato, come ha mostrato la reazione del luminol nel garage-mattatoio.
E poi ci sono le testimonianze: la Fiat Punto blu di Gatti, avvistata nella remota Valcamonica, non lontano dal dirupo del Vivione dove i resti furono abbandonati, e la conferma del suo soggiorno in un albergo di Breno, un dettaglio apparentemente minore ma geograficamente significativo.
Altri tasselli si aggiungono nel 2006. Il 22 gennaio, nei boschi di Provaglio, a poche decine di metri dall'ingresso della galleria Montecognolo, lungo la sp 510 che dalla città porta al lago d'Iseo e poi verso la Valcamonica, un boscaiolo scopre il cranio mummificato di un uomo. È quello di Aldo Donegani. Le successive perizie evidenziano che è stato colpito da un oggetto contundente. Il 16 novembre dello stesso anno, nello stesso bosco, due cercatori di funghi, sotto un cespuglio, notano un altro teschio: è quello di Luisa De Leo.
Il processo
Mercoledì 16 maggio 2017, a 21 mesi dalla morte dei coniugi Donegani, arriva la sentenza del processo di primo grado. Dopo 20 udienze e sette ore di camera di consiglio, Guglielmo Gatti viene condannato alla massima pena dalla corte presieduta da Enrico Fischetti, ovvero ergastolo con isolamento diurno per i primi tre anni.
Le richieste dei pubblici ministeri Claudia Moregola e Paola Reggiani vengono accolte in pieno, per Gatti non viene riconosciuta nessuna attenuante.
Secondo la Corte, Gatti aveva programmato un «delitto perfetto», approfittando di un periodo estivo per far sì che la scomparsa non destasse sospetti immediati. L'idea era di sezionare i corpi, eliminare le tracce più evidenti e disperderli, per poi far credere a una scomparsa volontaria.
Il suo piano però crolla con l'arrivo imprevisto di Luciano De Leo, il nipote carabiniere, che costringe Gatti ad accelerare i tempi e a commettere errori cruciali, come l'incidente stradale sfiorato con la sua Punto blu al passo del Vivione, evento rimasto impresso nella memoria di un ragazzino che lo colloca nel punto in cui vengono rinvenuti i cadaveri.

La Corte conclude che le prove a carico del «nipote del piano di sopra» sono «sovrabbondanti» e che anche un solo elemento sarebbe bastato per accertarne la responsabilità. Il movente, pur considerato superfluo ai fini della condanna, viene individuato nell'odio maturato da Gatti a causa di una vita di sottomissione alle aspettative familiari e di un rifiuto di superare le proprie difficoltà. Con gli zii «non c’era alcun rapporto – ha detto Gatti durante una delle udienze –: si trattava sostanzialmente di un buon vicinato che si limitava a sporadiche visite in casa loro. La loro disinvoltura sessuale è stata oggetto di commenti in famiglia, ma la situazione era stata moralmente risolta attraverso una maggiore distanza».
Nel giugno del 2008 la pena viene confermata anche al termine del processo d’Appello.
Il profilo di Guglielmo Gatti
La perizia psichiatrica su Guglielmo Gatti ha dipinto il ritratto di un «bravo ragazzo, tutto casa e scuola», la cui vita, tuttavia, è stata presto segnata da una profonda solitudine e dall'incapacità di opporsi al volere familiare. Secondo i periti, la sua sarebbe una timidezza quasi patologica, su cui si instaura una costante indecisione e da una totale sottomissione alle aspettative dei genitori, soprattutto durante l'adolescenza.

Un «appiattimento» sulle posizioni materne e paterne che, inizialmente, non sembrava procurargli sofferenze, almeno fino al periodo universitario. È proprio qui che si manifesta un primo, velato, conflitto domestico: il suo desiderio di passare da Ingegneria nucleare a Matematica viene drasticamente represso, portando a un progressivo disinteresse e al fallimento accademico. Questo momento, definito «critico fondamentale» e «devastante» dagli esperti, lo spinge a ritirarsi ulteriormente in un angusto spazio introspettivo, incapace di identificarsi con l'immagine grandiosa del ricercatore.
Dal tunnel emotivo in cui si rifugia non affiorano emozioni significative, nemmeno nei confronti dei genitori, con i quali, a suo dire, il rapporto era «normale», ma per i periti privo di reali «valenze affettive». Solo la morte della madre sembra avergli strappato un barlume di commozione. La perizia sottolinea come Gatti abbia subìto passivamente le regole familiari, forse incapace persino di concepire alternative. La morte del padre, nel giugno 2005, ha rappresentato un «crocevia», un’opportunità per ristrutturare un progetto esistenziale che, per l'accusa, ha tragicamente preso la forma dell'omicidio degli zii.
Oggi Guglielmo Gatti ha 61 anni, si trova nel carcere di Opera e dalla fine del 2021 può usufruire di permessi speciali.
La villetta di via Ugolini
Se tante sono le parole chiave di questa storia, molti gli indizi e pochi i volti entrati nella memoria collettiva, c’è un luogo simbolo che è il centro della storia: la villetta al 15 di via Ugolini. Due piani in cui hanno vissuto a stretto contatto vittime e assassino.
Per 11 anni l’appartamento abitato da Aldo e Luisa Donegani è rimasto chiuso. Tutto cristallizzato com’era il 30 luglio 2005. Poi, nel febbraio del 2016, un gruppo di attivisti di Associazione Diritti per tutti, Magazzino 47 e Collettivo gardesano autonomo l’aveva riaperto, occupandolo, per consegnarlo a una coppia con tre bambini piccoli, rimasta senza casa per morosità incolpevole. Una sistemazione che era durata pochi giorni: vennero staccate le utenze, la famiglia abbandonò lo stabile per il freddo e la villetta tornò così deserta.
E così rimase, finché con due diverse operazioni il geometra Francesco Ganda, 88 anni e nessuna voglia di rinunciare a progetti con un importante valore simbolico oltre che architettonico e tecnico, è diventato proprietario di tutto lo stabile. Nel 2023, a 18 anni dal duplice delitto Donegani e dopo numerose aste andate a vuoto per la vendita dell’appartamento che fu di Guglielmo Gatti, sono partiti i lavori di ristrutturazione. L’obiettivo, disse Ganda, era di «ridare al quartiere qualcosa di bello per cancellare una brutta storia».
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