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Gli 80 anni di Lucescu: con lui il Brescia scrisse la storia a Wembley

È il terzo allenatore più titolato della storia: l’invenzione della match analysis, i giocatori in miniera, la guerra in Ucraina. Oggi guida la Nazionale romena
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Gli 80 anni di Lucescu
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L’aria rarefatta, i volti madidi. L’umidità che ottunde i sensi. Sono una ventina, si guardano straniti. «Ma che ci facciamo qui?». Molti di loro parlano portoghese con l’inflessione tipica dei brasiliani. Giocano nello Shakhtar, squadra di calcio del Donetsk, in Ucraina. Guadagnano milioni e ora boccheggiano in una miniera, centinaia di metri sottoterra. Ce li ha portati Mircea Lucescu: «Per vivere anche solo un minuto la vita di chi avrebbe tifato per noi la domenica». È il terzo allenatore più titolato nella storia di questo sport: Pep Guardiola l’ha superato qualche tempo fa, davanti a tutti c’è Sir Alex Ferguson. Che su quel podio ci siano due ex Brescia fa una certa impressione. Oggi il romeno compie ottant’anni. Un gigante che non molla: attualmente guida la Nazionale del suo Paese. Troppo forte il richiamo del campo. Per la pensione c’è tempo.

Il legame con Brescia

Lucescu ai tempi del Brescia - © www.giornaledibrescia.it
Lucescu ai tempi del Brescia - © www.giornaledibrescia.it

Mircea per il calcio ha girato il mondo: Romania, Italia, Turchia, Ucraina, Russia. A Brescia ha affondato radici più che altrove. Ama la calma placida che ammanta la città. Qui ha ancora legami solidi, una casa. «Quanto è finita l’ultima partita?» è la domanda che ritualmente si sente rivolgere chi ha l’occasione di scambiare con lui qualche parola. Non è un interesse affettato, il legame che avverte con la squadra e con la gente è per lui eterno. E il sentimento è reciproco: nella sua storia – sciolta e ricomposta in queste folli settimane – il Brescia ha vinto un solo trofeo, l’Anglo Italiano del 1994. In panchina c’era Lucescu.

Quella notte a Wembley

È solo uno degli oltre trenta trofei messi in bacheca da Mircea. Non avrà il prestigio dei campionati o della Coppa Uefa vinta nel 2009, ma per Brescia significò tutto. Nella gara inaugurale con il Charlton al Rigamonti c’erano milleduecento persone. L’interesse era relativo, la copertura mediatica pressoché assente. Furono duemila, invece, i tifosi che raggiunsero Londra per la finale con il Notts County nel leggendario Wembley. Un esodo che racchiude la magia trascinante che Lucescu plasmò insieme alla sua squadra. Segnò Ambrosetti, finì 1-0. La coppa, le lacrime.

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L'Anglo Italiano vinto a Wembley con Lucescu

Di quella ridda di emozioni restano le immagini. Una, in bianco e nero, ritrae Lucescu con Corioni. Reggono entrambi il trofeo. L’allenatore fissa l’obiettivo: occhi vispi, sguardo fiero e composto. A quel punto della sua carriera, sommando i successi da calciatore e da tecnico, ha già messo insieme sette campionati romeni e due Coppe di Romania. Il presidente bofonchia qualcosa, ha gli occhi chiusi. È emozionato e non fa nulla per dissimulare. Ecco perché quell’istantanea è così potente.

Gino Corioni e Mircea Lucescu con la coppa del torneo Anglo Italiano - Foto © www.giornaledibrescia.it
Gino Corioni e Mircea Lucescu con la coppa del torneo Anglo Italiano - Foto © www.giornaledibrescia.it

Il rapporto con Corioni

Non fu Corioni a portarlo per primo in Italia. Quel primato, materialmente, appartiene a Romeo Anconetani, che lo volle a Pisa nel 1990. I due condivisero però l’intuizione. Gino e Mircea si conobbero alla fine degli anni Ottanta. La Dinamo Bucarest venne in Italia per giocare un’amichevole a Bologna, e in quell’occasione ci fu la prima stretta di mano. Nel 1989 il club romeno fece tappa a Cremona: dopo un quarto di finale di Coppa delle Coppe con la Sampdoria, Lucescu fu ospite nell’azienda di Ospitaletto dell’imprenditore bresciano. L’avrebbe voluto subito con sé. Ma in quel frangente Anconetani fu più persuasivo: «Mi entrò immediatamente nel cuore, mi convinse», confidò l’allenatore alla Gazzetta dello Sport. Pazienza. Anche perché l’arrivo a Brescia venne ritardato di un solo anno. E in nessun altro club italiano Lucescu rimase per così tante stagioni.

Lucescu in tribuna con Corioni - Foto Reporter Spada © www.giornaledibrescia.it
Lucescu in tribuna con Corioni - Foto Reporter Spada © www.giornaledibrescia.it

Gioie, dolori e scaramanzia

Il lungo cammino con le rondinelle non fu tutto lastricato d’oro. Ottenne due promozioni, nel 1992 e nel 1994. Ma nel primo anno di A retrocedette dopo l’amaro spareggio con l’Udinese. Nel 94/95 non ebbe modo di terminare la stagione: a febbraio scattò l’esonero. Così come nella stagione successiva, quando Corioni lo riaccolse in B. Il suo fu il Brescia dei romeni. Hagi, il più grande di tutti. Ma anche Mateuț, Raducioiu, Sabau, Lupu. All’epoca si usava così, era il calcio delle colonie, come quella degli olandesi al Milan o dei tedeschi all’Inter. Lucescu ne volle una tutta sua: «Insistetti con il presidente, anche perché in quel modo ti garantivi l’appoggio di un intero popolo». E poi la scaramanzia: guai a restare sul pullman quando doveva muoversi in retromarcia. Se lo spazio di manovra non consentiva alternative, obbligava la squadra a scendere e a risalire soltanto quando l’autista l’aveva completata.

I grandi campioni

I festeggiamenti per l'Anglo Italiano: al centro Lucescu, alla sua destra Hagi - Foto Eden © www.giornaledibrescia.it
I festeggiamenti per l'Anglo Italiano: al centro Lucescu, alla sua destra Hagi - Foto Eden © www.giornaledibrescia.it

C’è lo zampino di Lucescu nell’arrivo a Brescia di Gheorghe Hagi. Eccome se c’è. A trent’anni di distanza non è semplice restituire la portata di un colpo simile. Era il «Maradona dei Carpazi», aveva un sinistro divino. Giocava nel Real Madrid, che lasciò per vestire la maglia con la «V» bianca. Frammenti di un calcio che non c’è più. Lucescu volò a Bucarest insieme a Corioni, gli fece una corte spietata. Il fatto che in panchina sedesse un suo connazionale fu ovviamente decisivo. Qualcuno racconta che presidente e tecnico, per convincerlo, gli avessero fatto credere che la città fosse a un tiro di schioppo dal mare. Gli avrebbe ricordato la sua Costanza, abbarbicata alla costa del Mar Nero. Una bugia bianca, a fin di bene. Internet non faceva ancora parte della quotidianità di tutti, non c’era modo di verificare in presa diretta. E così «Gica» firmò un triennale.

Mircea incrociò anche un giovanissimo Andrea Pirlo. Lo fece esordire nell’Anglo Italiano, contro l’Ipswich Town. Nevicava, il campo era in pessime condizioni: «Forse sbagliai – ha ammesso di recente in un’intervista a Cronache di spogliatoio –. Non c’erano le condizioni perché le sue qualità potessero emergere». Ciononostante è una scelta che Lucescu rivendica: occorre coraggio per lanciare i giovani. Ce ne vuole ancora di più per difenderli. Un principio che l’ha sempre guidato. Pirlo all’epoca aveva sedici anni. Dopo un Torneo di Viareggio nel quale non venne schierato dal tecnico della Primavera, lo riaccompagnò personalmente a casa. «La tua strada è la Nazionale. Mettiti questo come sogno nella testa e seguilo. Vedrai che con il tuo talento e la tua intelligenza ci arriverai», gli raccomandò. Aveva ragione da vendere.

Un tecnico visionario

Adriano Bacconi, qui con Egidio Salvi: lui e Lucescu diedero vita alla match analysis - © www.giornaledibrescia.it
Adriano Bacconi, qui con Egidio Salvi: lui e Lucescu diedero vita alla match analysis - © www.giornaledibrescia.it

Lucescu è stato un grande innovatore del calcio. Quando si affacciò al campionato italiano professava concetti moderni. Gioco offensivo e propositivo. In quelle idee germogliavano principi che impiegarono decadi a giungere a completa fioritura. L’Italia era la roccaforte del conservatorismo, della difesa che è il miglior attacco, del «prima non prenderlo». È la filosofia che ci ha reso grandi, non va rinnegata. Ma Lucescu portò qualcosa di nuovo. In senso materiale e non solo concettuale. A Pisa si mise in testa di dotare la preparazione tattica della sua squadra di uno strumento in più: la videoanalisi. Il suo braccio operativo era Adriano Bacconi, che con una telecamera e un videoregistratore confezionava i filmati degli avversari, dei loro movimenti e degli schemi. Avete presente le clip in cui Guardiola o De Zerbi riproducono tagli e sovrapposizioni con stoviglie e grissini? Ecco: a tavola, con quei due, era sempre così. Oggi a ogni modo non esiste staff che non contempli la figura di un match analyst. In principio fu Mircea.

Calcio e guerra

Lucescu ha allenato lo Shakhtar per dodici anni - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Lucescu ha allenato lo Shakhtar per dodici anni - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it

Dai venti ai quarantaquattro anni, la fase più florida della vita di qualunque essere umano, Lucescu visse sotto la dittatura Ceausescu. Era a Bucarest quando si consumò la rivoluzione romena. Quell’anno, il 1989, cadde il muro di Berlino. La luce di un mondo più libero inondava il pianeta attraverso le fessure aperte nella cortina di ferro. Si respirava voglia di futuro, e quel sentimento aveva echi anche nella visione calcistica di Lucescu.

Anni dopo, l’Ucraina. Il tecnico guidò lo Shakhtar dal 2004 al 2016, vinse una Coppa Uefa e fece incetta di titoli nazionali. Nel 2014 ci fu l’Euromaidan, il Donetsk si autoproclamò repubblica indipendente in seguito a un referendum non riconosciuto dal governo centrale. La situazione nella regione divenne fortemente instabile, uno degli effetti del conflitto con i separatisti filorussi fu il bombardamento dell’avveniristica Donbass Arena, lo stadio dello Shakhtar. Per due anni Lucescu guidò una squadra in esilio, prima a Leopoli e poi a Charkiv.

L’invasione

Lucescu alla Dinamo Kiev - Foto Epa © www.giornaledibrescia.it
Lucescu alla Dinamo Kiev - Foto Epa © www.giornaledibrescia.it

Quando la Russia invase l’Ucraina, il 24 febbraio del 2022, Lucescu era l’allenatore della Dinamo Kiev: «Dopo l’attacco russo rimasi a Kiev tre giorni. Poi, con l’aiuto della Uefa e della federazione moldava, tutti gli stranieri delle società ucraine lasciarono il Paese, in Romania e poi nei rispettivi Stati». Dopodiché le partite ripresero, tra mille complessità logistiche. A luglio, a margine di una vittoria in Champions contro il Fenerbahce a Istanbul, non prese parte alla conferenza post partita per protestare contro i cori che inneggiavano Putin scanditi dai tifosi turchi. Lui la Russia l’aveva conosciuta anni prima, da allenatore dello Zenit, con cui vinse anche una Supercoppa. Dopo l’invasione definì il Paese «terrorismo, morte e dolore»: «Ricordatemi come un uomo che ama l’Ucraina», si affrettò a precisare per i posteri.

Non è finita

La storia con la Dinamo si interruppe qualche mese più tardi. Dopo una sconfitta con il «suo» Shakhtar rassegnò le dimissioni. Lo annunciò davanti a un pugno di giornalisti, e le sue parole rimbalzarono così in Italia: «Ho deciso di chiudere qui la mia carriera». Niente di più lontano dal vero. «Un errore di traduzione, io il calcio non lo mollo». Dopo aver allenato a livelli altissimi tra club (Inter e Galatasaray, ad esempio) e Nazionali (Turchia), il sacro fuoco non si è spento. Da quasi un anno è tornato a guidare la Romania, una nuova parentesi dopo quella tra il 1981 e il 1986. A ottant’anni suonati, Lucescu è ancora in pista. E ha intenzione di restarci per un altro po’.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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