L’alta affluenza, poi il crollo: storia del referendum in Italia

Quella dell’8 e 9 giugno è stata la diciannovesima tornata di referendum abrogativi, a distanza di 51 anni dalla prima (con la quale gli italiani confermarono la legge sul divorzio, il 12-13 maggio 1974). In questi 19 appuntamenti col voto, il quorum è stato raggiunto in nove casi; i quesiti proposti sono stati ben 77, dei quali 39 «validi» (a fronte dei 38 per i quali non è scattato il quorum del 50,1% degli aventi diritto); fra questi 39, 23 hanno visto la vittoria dei «sì» (abrogazione di norme) e 16 quella del «no»; fra gli altri 38 («non validi»), il sì ha vinto 37 volte, il no solo una.
Il primo ventennio
Queste cifre non restituiscono bene il quadro della storia del referendum abrogativo in Italia, che – pur previsto dall’articolo 75 della Costituzione – è stato attuato solo con la legge del 1970. Perciò, suddividiamo il percorso referendario in due periodi. Il primo va dal 1974 al 1995: gli italiani vanno in massa alle urne per le politiche, le regionali, le amministrative e anche (un po’ meno, ma abbastanza) per i referendum. Dal 1974 al 1985 vincono sempre i no, per ben nove quesiti complessivi; quindi, nessuna norma viene abrogata dal popolo; dal 1987 al 1995 cambia tutto: su cinque tornate referendarie in una non si raggiunge il quorum (1990: prima volta), in tre vincono sempre i sì, mentre nel 1995 prevalgono in sette quesiti i no e in sei i sì.
Sfida tra i partiti
In questo primo ventennio referendario si raggiunge il quorum otto volte su nove, con percentuali di affluenza fra l’87,7% del 1974 e il 42,9% del 1990: in sostanza, è sempre una sfida a viso aperto fra i partiti (anche se nel 1991, sulle preferenze per la Camera dei deputati Craxi suggerisce di andare al mare ma gli italiani non lo seguono: affluenza 62,5%) che non hanno paura di confrontarsi sui singoli temi, anche se 38 quesiti in 21 anni sono tanti, pur considerando che dal 1997 ad oggi ne sono stati votati 39 in 28 anni. Si parla, allora, di crisi di referendum perché nel 1995 se ne propongono (o meglio, ne vengono ammessi dalla Consulta) ben tredici, anche se gli elettori dell’epoca non fanno confusione, perché sanno scegliere la risposta per ogni quesito e finisce, come si diceva, sette a sei per i no.
Cinquecentomila firme
Il secondo periodo inizia nel 1997 e dura ancora oggi: dieci tornate referendarie delle quali solo quella del 2011 su servizi pubblici locali, acqua, nucleare e legittimo impedimento supera il quorum, col 54,8% (e la larga vittoria dei sì); per il resto, 35 quesiti hanno visto inutili vittorie dei sì, a causa del mancato raggiungimento del 50% +1 dei votanti. Il referendum abrogativo nasce dall’iniziativa di un comitato promotore che deve raccogliere almeno cinquecentomila firme valide (le esamina la Cassazione) per ogni quesito proposto (oppure serve la richiesta di almeno cinque consigli regionali). L’articolo 75 della Costituzione esclude dai referendum abrogativi le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione a firmare trattati internazionali, oltre a vietare l’abrogazione di norme di grado superiore (per modificare le quali si segue il procedimento parlamentare dell’articolo 138 della Costituzione).
L’iter
Poi la Corte costituzionale giudica dell’ammissibilità dei quesiti e della coerenza e unitarietà della domanda posta agli elettori, oltre che dei risvolti che l’abrogazione di una norma può avere sul quadro istituzionale (non è ammesso, per esempio, abrogare la legge elettorale perché non si può restare senza, ma la si può «ritagliare» cancellando alcune disposizioni e – di fatto – cambiarla). Se il Parlamento approva una normativa che recepisce le richieste referendarie (non basta una riforma qualsiasi della materia) il voto popolare su quel quesito non si svolge. Come detto, se alla consultazione non si raggiunge l’affluenza di almeno il 50% più uno degli aventi diritto al voto, il referendum non sortisce effetti.
Gli altri referendum
Nel nostro ordinamento ci sono altri referendum: quello costituzionale, sulle leggi costituzionali e di revisione costituzionale, che però si può proporre solo se il testo non ha avuto il voto favorevole di almeno i due terzi dei componenti di Camera e Senato nella seconda lettura. Il referendum costituzionale non ha quorum, perché si tratta di confermare o meno un testo già approvato dal Parlamento: ciò nonostante, in tre occasioni su quattro (2006, 2016 e 2020) l’affluenza è stata superiore al 50% (rispettivamente 52,5%, 65,5% e 51,1%) mentre nel 2001 ci si è fermati al 34,05%. Nel 2001 e nel 2020 hanno vinto i sì (cioè, in questo caso, a differenza del referendum abrogativo, si conferma il testo parlamentare) mentre nel 2006 e 2016 hanno vinto i no; quindi, le riforme costituzionali dell’epoca non sono entrate in vigore.
Il referendum del 1946
C’è stato poi un referendum di indirizzo (1989) che simbolicamente conferiva un mandato costituente al Parlamento europeo (affluenza 80,7%, sì 88%). Sono previsti, inoltre, referendum sulla fusione di regioni esistenti o la creazione di nuove regioni, sul passaggio da una regione all’altra di province e comuni, sugli statuti regionali e su leggi e provvedimenti regionali, senza contare altri strumenti comunali di partecipazione. Non dimentichiamo che la nostra stessa Repubblica nasce con un referendum istituzionale che il 2 giugno 1946 ha permesso agli italiani di scegliere la forma istituzionale dello Stato (per la prima volta il suffragio universale era esteso alle donne). Quella dei vari tipi di referendum è dunque una lunghissima storia il cui futuro appare tuttavia incerto.
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