La «visione» di Ben Gurion e l’annientamento di Gaza

«Gli arabi dovranno andarsene, ma serve un momento opportuno per farlo accadere, come una guerra», scriveva al figlio Amos
Edifici distrutti a Gaza - Epa/Mohammed Saber
Edifici distrutti a Gaza - Epa/Mohammed Saber
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Nell’ottobre 1937, mentre in Medio Oriente montava la Grande Rivolta araba contro la Gran Bretagna e gli ebrei e la Commissione Peel raccomandava la spartizione della Palestina, dando vita al mantra «due popoli, due Stati», David Ben-Gurion affidava alla carta pensieri che avrebbero risuonato attraverso quasi un secolo di storia.

«Gli arabi dovranno andarsene, ma serve un momento opportuno per farlo accadere, come una guerra», scriveva al figlio Amos, futuro architetto dello Stato d’Israele. Quelle parole contenevano in nuce l’intero programma di una trasformazione demografica che oggi, 88 anni dopo, ha trovato la sua realizzazione più brutale e sistematica nei quartieri devastati di Gaza. La distanza temporale che separa quelle righe dalla situazione odierna misura anche l’evoluzione di una strategia che diviene metastorica: da intuizione privata a dottrina militare, da confidenza familiare a programma di governo.

Drammaticamente significative, quasi nefastamente profetiche, apparivano infatti le dichiarazioni di qualche mese fa di Bezalel Smotrich, attuale ministro delle Finanze, quando affermava che entro breve la Striscia sarebbe stata totalmente distrutta e l’intera popolazione concentrata in una piccola area, prima di essere costretta ad andarsene.

La guerra che Ben-Gurion aveva identificato come «momento opportuno» è diventata realtà attraverso una metodologia che riflette l’evoluzione tecnologica del nostro tempo. Una tecnologia non funzionale al bene e al progresso della società, ma manifestamente applicata alla distruzione: sistemi di selezione dei bersagli basati su algoritmi di intelligenza artificiale o blocchi alimentari sistematici e meccanismi di distribuzione degli aiuti sotto controllo militare, calibrati per indurre la fame di massa, finalizzati ad esercitare una forte pressione demografica in modo da provocare nuovi esodi.

La distribuzione selettiva delle risorse essenziali a Gaza - Epa/Haitham Imad
La distribuzione selettiva delle risorse essenziali a Gaza - Epa/Haitham Imad

Gaza evidenzia come le strategie di controllo territoriale abbiano integrato le capacità tecnologiche contemporanee con principi di assedio che attraversano i secoli. E il suo territorio è divenuto uno spazio sul quale si possono individuare almeno quattro direttrici dell’azione israeliana, in una strategia multidimensionale, capace di operare simultaneamente su più livelli – geografico, demografico, negoziale e militare – e di articolarsi su diverse scale temporali: dal controllo immediato delle risorse alla trasformazione a lungo termine del territorio.

La prima implica il controllo territoriale permanente da esercitarsi attraverso il corridoio di Netzarim, vera leva geostrategica che ha portato ad una delle trasformazioni più evidenti della geografia fisica e politica della Striscia. Si tratta di un asse che si estende per poco meno di 7 km, dal confine orientale con Israele fino alle sponde del Mediterraneo, lungo il quale l’esercito israeliano ha demolito numerosi edifici in quello che appare come un intervento sistematico volto a stabilire una zona cuscinetto.

Benjamin Netanyahu alla Knesset - Epa/Abir Sultan
Benjamin Netanyahu alla Knesset - Epa/Abir Sultan

La metà del territorio in questione è formalmente preclusa all’accesso dei civili palestinesi e gli edifici abbattuti sono stati sostituiti da almeno 19 grandi basi militari e numerose postazioni minori nell’area circostante, dando forma a una presenza infrastrutturale destinata a consolidarsi nel tempo. Parallelamente alla ridefinizione territoriale, Israele esercita una politica di pressione negoziale fondata sulla «privazione calibrata», termine volutamente distorcente e ambiguo che negli intenti – falliti – di Netanyahu mirerebbe a scongiurare una crisi umanitaria conclamata, evitando però di superare la soglia critica che potrebbe innescare una reazione internazionale più incisiva.

In questo modo, la vulnerabilità della popolazione si configura come strumento di gestione del conflitto e di pressione su Hamas. Un terzo pilastro della strategia israeliana consiste nella frammentazione interna della Striscia. Conosciuto come «Piano dei Generali», il progetto ha comportato la suddivisione del territorio in enclave isolate, ciascuna sotto stretto controllo militare che punta a regolare i movimenti della popolazione anche per mezzo della distribuzione selettiva delle risorse essenziali.

Passaggi intermedi, volti a realizzare l’ultimo punto, quello realmente cruciale della dottrina Netanyahu su Gaza: attuare una deterrenza a lungo termine attraverso la normalizzazione della presenza militare. Ma non solo in quest’area. Legittimamente concentrata sul dramma della popolazione gazawi, l’attenzione internazionale rischia di non prestare attenzione a ciò che parallelamente sta accadendo anche in Cisgiordania, dove si sta intensificando una campagna sistematica di espulsioni delle comunità beduine palestinesi portata avanti dai cosiddetti «Giovani delle colline», movimento dell’estrema destra religiosa composto principalmente da coloni adolescenti e giovani adulti che operano negli avamposti illegali dell’area, appoggiato dal Governo che ha intensificato l’edificazione di nuove colonie.

Con questa complessa e duplice strategia Netanyahu sembra determinato a rendere concreto e manifesto ciò che David Ben-Gurion annotava sul suo diario in piena prima guerra arabo-israeliana, nel 1948: «Dobbiamo fare di tutto per assicurarci che (i palestinesi) non tornino mai più».

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