Con la strategia della periferia Israele coltiva la sua sicurezza

Nessuna tregua da parte del presidente Netanyahu che nei giorni scorsi ha attaccato la Siria riaffermando a la vocazione israeliana
Il presidente israeliano Benjamin Netanyahu - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Il presidente israeliano Benjamin Netanyahu - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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Nella sua storia tormentata, il Medio Oriente, dal secondo dopoguerra in poi, è stato teatro di molte unioni di convenienza. Alleanze strette in funzione di interessi condivisi o di nemici comuni, come quella tra Israele e l’Iran ai tempi dello Shah, che Ben Gurion aveva definito «un vero amore tra persone che non si sposano», o tra la Siria e l’Egitto di Nasser. Quest’ultimo, nel 1958, proprio con Damasco volle dare vita alla Repubblica Araba Unita (Rau), in quella che avrebbe rappresentato lo zenit del panarabismo, l’ideologia politica che promuoveva l’unificazione dei popoli arabi in una sola nazione e di cui il presidente egiziano ne fu il massimo interprete.

Per Israele il progetto fu immediatamente percepito come una minaccia esistenziale alla propria esistenza, «un’unione artificiale, ma potenzialmente devastante, capace di trasformare l’ostilità verbale araba in capacità bellica coordinata», come si leggeva in rapporto dell’intelligence militare. Ben Gurion temeva che il coordinamento tra le armate egiziane e siriane avrebbe potuto portare a un fronte militare congiunto dal Negev al Golan e impegnare così il suo esercito su due fronti. Dal punto di vista politico-ideologico, la Rau veniva interpretata come un passo concreto verso la realizzazione del panarabismo militante e consolidava nell’area l’influenza anti-israeliana di Nasser, il quale non riconosceva l’esistenza dello Stato ebraico e ne chiedeva l’eliminazione come parte della liberazione della Palestina.

Sul piano prettamente strategico Israele reagì con l’elaborazione della strategia della periferia, la quale prevedeva da un lato alleanze con Stati non arabi (Iran, Turchia, Etiopia), considerati «periferici» rispetto al blocco arabo, dall’altro con le minoranze etniche: dai curdi iracheni, ai cristiani libanesi, alle comunità druse, che componevano l’intricato mosaico della regione. L’obiettivo era, ed è tutt’oggi, quello di circondare parte del mondo arabo-sunnita con un sistema di leve geopolitiche periferiche, lontane dai confini diretti di Israele, ma capaci di influenzare gli equilibri della regione.

Il recente attacco israeliano contro obiettivi militari a sud di Damasco, giustificato come difesa della popolazione drusa di Sweida appare dunque meno come un atto isolato e più come l’ennesima tessera di una strategia lunga settant’anni: impedire il consolidamento di un nemico, un tempo la Rau, oggi dell’asse sciita ai confini del Golan, frammentare la Siria e proteggere le minoranze amiche per mantenere instabile ogni possibile accerchiamento arabo o iraniano. Nella più pura dottrina del divide et impera. È così che Gerusalemme continua a fare politica estera attraverso la mappa delle fratture altrui.

Una strategia della massima pressione che investe tre dimensioni. La prima riguarda il piano interno israeliano. In un momento di nuova forte instabilità politica data dalla fuoriuscita della Coalizione del partito ultraortodosso Shas, l’azione militare offre al governo l’occasione per ravvivare il consenso interno e ricompattare le fila attorno a Netanyahu, rispondendo alle richieste delle ali più oltranziste che da settimane chiedevano una nuova risposta muscolare contro i nemici dello Stato. Sul piano prettamente regionale Israele deve evitare che la Siria, uno Stato a forte frammentazione dopo il progressivo svuotamento dell’influenza russa nel Levante e il collasso del regime di Assad, diventi una piattaforma operativa per l’Iran, alla ricerca di un riscatto politico dopo la guerra del 12 giorni, sia sul piano interno che internazionale.

D’altro canto una possibile ritrovata influenza sul Libano e sulla Siria di Teheran consentirebbe agli Ayatollah di negoziare da una posizione di relativa forza o comunque di non debolezza con gli Stati Uniti in caso di ripresa dei colloqui. Ed è ciò che Netanyahu vorrebbe evitare. Inoltre sfruttando la fragilità del nuovo governo di al Jolani, Israele vuole conseguire la demilitarizzazione del sud della Siria, consolidando una vasta zona cuscinetto a propria protezione.

La terza dimensione si inscrive nella logica della frammentazione territoriale e confessionale del Levante. Con questa operazione Netanyahu ha mandato un duplice segnale: da un lato alla popolazione drusa siriana, ribadendo la disponibilità di Israele a proteggerla da un contesto statale ostile come quello siriano; dall’altro alle minoranze interne israeliane, in particolare agli stessi drusi, che danno un contributo qualitativamente e militarmente significativo all’interno delle forze armate e che lo potrebbero dare anche a livello politico, ora che Netanyahu gestisce un governo di minoranza.

L’attacco riafferma la storica vocazione israeliana, iscritta nella dottrina della periferia, a porsi come scudo per le minoranze regionali contro l’autoritarismo arabo e l’egemonia sciita e si inserisce in una logica di deterrenza espansiva, che non si limita a difendere i confini, ma li ridisegna attraverso l’azione preventiva. In tale cornice, la Siria non è solo un vicino ostile, ma diventa il campo di prova di una visione strategica più ampia, in cui la sicurezza di Israele si misura anche nella capacità di influenzare gli equilibri regionali oltre i propri confini, sfruttando la frammentazione locale e le dinamiche minoritarie. La dottrina della periferia si conferma non come reliquia del passato ma come chiave interpretativa del presente, adattata alle nuove geometrie regionali. Una dottrina silenziosa ma costante, che da decenni guida la logica della sicurezza israeliana.

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