L’invito al non voto limita la democrazia

Ma lo sanno cosa stanno facendo coloro che invitano gli elettori a non recarsi alle urne in occasione della tornata referendaria dell’8 e 9 giugno? Molti di loro probabilmente pensano solo a far fallire i referendum, impedendo il raggiungimento del quorum, tradizionale espediente tattico utilizzato in passato, a destra come a sinistra, dai partiti ostili ai quesiti referendari del momento. La premier Giorgia Meloni ha scelto una via alternativa: ha annunciato che andrà ai seggi, ma non ritirerà le schede referendarie. Così facendo, tuttavia, non risulterà tra i votanti ai fini del quorum: un gesto esclusivamente politico che nulla aggiunge alla concreta partecipazione democratica.
È una scelta del tutto legittima e persino comprensibile quando c’è una partecipazione elettorale degna di questo nome, ma nel momento in cui esiste una diffusa preoccupazione per la rapida quanto apparentemente inarrestabile crescita dell’astensionismo, la cosa assume un altro significato. Sembra quasi profilarsi, dietro l’invito a disertare le urne, il deliberato tentativo di dare un’ulteriore spallata alla cultura del voto, senza rendersi conto che in Italia tale cultura è da sempre fragile di suo ed è molto pericoloso continuare a delegittimarla.
Esiste, nel fondo della tradizione politica italiana, una sorta di «conventio ad excludendum»: da una parte troviamo una classe dirigente diffidente se non ostile ad ogni tipo di protagonismo popolare, dall’altra si trova una storica mancanza di empatia delle masse nei confronti delle urne elettorali. Tale disaffezione ha in Italia una lunga storia, le cui radici affondano, sin dalle origini dello Stato unitario, nell’indifferenza popolare per la partecipazione alla sfera pubblica e più in generale per la volontà di modificare il sistema attraverso una più decisa partecipazione. Non a caso gli italiani e le italiane non hanno mai reclamato con forza l’estensione del suffragio, come si evince dall’introduzione del suffragio universale maschile, concesso da Giolitti nel 1912 senza che si fosse mai manifestata alcuna pressione di piazza per ottenerlo e senza che si fosse levata una pubblica protesta delle donne, totalmente escluse dai seggi.
Le alte percentuali di voto della seconda metà del ‘900 non ci devono ingannare: sono il prodotto soprattutto dell’accesa competizione ideologica tra partiti di massa più che della diffusa e consapevole volontà degli elettori di esercitare un diritto, quello alla piena cittadinanza politica, a lungo negato sino alla caduta del fascismo. Non dimentichiamo che, nell’ultimo ventennio, il dato dell’astensionismo tende ad aumentare ulteriormente quando si vota alle elezioni comunali, regionali ed europee, dove lo spirito dell’antagonismo ideologico spesso si riduce. C’è dunque in Italia un’insensibilità di fondo per il voto, che la classe dirigente di qualunque forma e colore non dovrebbe trascurare. È una spia del difficile rapporto degli italiani con l’effettiva partecipazione politica (di cui la scheda elettorale è una piccola parte), che può essere considerata tale solo se la viviamo come esercizio di un diritto e come baluardo di difesa delle pubbliche libertà.
Non si tratta in questo caso di soffermarsi sulle evidenti differenze tra voto referendario e voto per la rappresentanza politica. Se è vero che il referendum è spesso considerato una forma di democrazia diretta e dunque teoricamente gradita alla cultura dell’antipolitica, allora ci dovremmo aspettare il ritorno ai seggi di quei milioni di italiani che si astengono dal recarsi alle urne in occasione delle elezioni politiche per polemica contro la politica come sistema. In realtà non sarà così perché gran parte dell’astensionismo non deriva da una scelta di protesta civica e politica, ma da un’indifferenza qualunquistica.
Invitare le persone a non andare ai seggi, oggi più di ieri, rappresenta dunque un messaggio nemmeno tanto subliminale con cui, volontariamente o meno, si cerca di boicottare i valori della democrazia liberale. D’altronde, a quanto pare, queste considerazioni riflettono una preoccupazione bipartisan, come dimostra la scelta di una parte della destra, rappresentata da Noi Moderati, di invitare gli elettori ad andare ai seggi e votare No. Perché non lo fanno anche gli altri schieramenti che sostengono il governo? Perché chi vuole sconfiggere i promotori dei quesiti referendari non sceglie di seppellirli sotto una attiva e motivata valanga di No? Contingente paura del confronto o lento avvelenamento dei pozzi della democrazia liberale?
Fulvio Cammarano – Docente di Storia Contemporanea, Università di Bologna
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