Con il referendum di giugno la sinistra prova a ricompattarsi

La previsione più ottimistica sui cinque referendum di giugno dice che raggiungere il quorum (cioè la validità della prova) «non è impossibile». Come dire che per le sinistre che vi si impegnano la scalata è tutta in verticale. I referendum sono uno strumento talmente sfruttato in passato che ormai passano nella indifferenza di gran parte degli elettori, i quali persino sulle politiche allargano l’area dell’astensionismo oltre il quaranta per cento, figuriamoci. Avere più informazione tv sui quesiti non migliora granché il quadro, semmai costituisce una giustificazione ex post.
Quanto alla campagna per l’astensionismo fatto dal centrodestra, vale appena la pena di ricordare che il medesimo appello negli anni è stato lanciato a turno da tutte le forze politiche a seconda delle convenienze, compresa la sinistra che oggi si indigna e protesta (rileggere Giorgio Napolitano del 2016 sul referendum delle trivelle). In ogni caso il fu «Campo Largo» si impegna sul referendum sperando di ricavarne un dividendo politico anche se l’eventuale raggiungimento del quorum non fosse raggiunto. Chi spera di più è naturalmente Maurizio Landini, il pifferaio che è riuscito a farsi seguire dagli altri leader puntando ad impiantare così, con la battaglia contro il Jobs Act e una più facile cittadinanza per gli immigrati, la propria candidatura a «federatore» delle tante e litigiose anime della sinistra italiana. Se va bene sarà soprattutto merito soprattutto della sua CGIL, se va male l’ambizione tramonterà come tante di altri sindacalisti prima di Landini (ricordate Cofferati?).

Certo la gran parte di quelli che andranno a votare daranno il loro sì e questo, anche in assenza di quorum, sarà sventolato come una vittoria. Lo potranno fare i gauchiste di Fratoianni, i Verdi di Bonelli, i radicali di Magi. Lo potrà rivendicare Conte i cui sondaggi sono tornati a salire. E di sicuro lo farà Elly Schlein che attraverso il referendum punta alla definitiva trasformazione del Pd: cercare di cancellare il Jobs Act significa abiurare il passato renziano («Ripariamo gli errori anche nostri») e restringere sino all’asfissia lo spazio per la minoranza riformista chiamata adesso a chiedere di abrogare una legge che tutto o quasi il Pd di allora votò in Parlamento: quasi un autodafè.
Ma se i riformisti si piegheranno, muti o quasi, Schlein avrà ragionevoli speranze di vincere il prossimo congresso e portare a termine la sua trasformazione del DNA democratico raccordandosi con i grillini e la sinistra radicale, ossia con tutti quelli che oggi alle Camere firmano la mozione su Gaza indossando in aula la kefiah palestinese, e quelli che si oppongono all’invio delle armi all’Ucraina perché difenda con esse il proprio territorio invaso dalla brutale ex Armata Rossa. Una galassia di sinistra che non perde occasione per disputarsi la leadership ma che alla fine, anche con questo referendum, decide di rinchiudersi nella comfort zone del declamatorio radicalismo melenchoniano. La storia ci dice che è un percorso di minoranza, privo di agganci con quel Paese moderato senza il quale non si vince e si regala alla destra una ricca assicurazione sulla vita.
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