Netanyahu, lo stallo per garantirsi la sopravvivenza

Il premier vuole rimanere aggrappato al potere il più a lungo possibile, per ritardare il declino politico (e i guai giudiziari) che lo aspettano una volta lasciato l’incarico
Netanyahu a Washington - Foto Ansa/Afp/Roberto Schmidt © www.giornaledibrescia.it
Netanyahu a Washington - Foto Ansa/Afp/Roberto Schmidt © www.giornaledibrescia.it
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Prima gli attacchi alle scuole-rifugio e alla «safe zone» di al-Mawasi, poi la nuova offensiva a Khan Younis: le ultime due settimane nella Striscia di Gaza sono state segnate dall’intensificarsi dell’offensiva israeliana, proprio mentre nei palazzi del Cairo, a un’ora di aereo, i negoziatori di Tel Aviv discutevano dell’ipotesi di un cessate il fuoco per la liberazione degli ostaggi.

Il contrasto tra le due scene rende bene l’ambiguità con cui il primo ministro Netanyahu sta affrontando questa fase del conflitto. Lo mostra anche l’evoluzione recente delle trattative. Due settimane fa, quando sembrava che un accordo fosse vicino, il premier israeliano è entrato a gamba tesa ponendo sul tavolo quattro condizioni aggiuntive.

Il diritto di Israele a riprendere i combattimenti «finché gli obiettivi della guerra non sono raggiunti», lo stop al presunto contrabbando di armi dall’Egitto verso Gaza (smentito dal Cairo), il divieto di ritorno nel nord della Striscia per «migliaia di terroristi» e la «massimizzazione del numero di ostaggi liberati in vita». Un diktat che lo stesso direttore del Mossad David Barnea avrebbe giudicato irresponsabile, secondo quanto hanno riportato i media israeliani.

A questo si aggiungono altri segnali che, in contraddizione rispetto ai tentativi negoziali, sembrano indicare l’intenzione di proseguire, anzi intensificare gli sforzi bellici: la chiamata alle armi di migliaia di nuove reclute, i nuovi ordini di evacuazione in aree del nord della Striscia che Tel Aviv aveva già dichiarato «ripulite» dalla presenza di Hamas, le minacce di un intervento massiccio contro Hezbollah in Libano.

Insomma, quello a cui stiamo assistendo sembra uno stallo voluto (che è stallo solo sul piano negoziale, perché le attività militari, come detto, sono tutt’altro che ferme). Ed è voluto perché è proprio sul mantenimento di quell’ambiguità e dello status quo che ne deriva che oggi poggia la sopravvivenza politica di Netanyahu. Sopravvivenza che è legata a tre attori con interessi spesso contrapposti.

Da un lato gli Stati Uniti, da cui Israele trae vitale sostegno militare, economico e politico, ma che spingono con sempre maggiore insistenza per la fine della guerra. L’ambiguità di Netanyahu serve allora un duplice scopo: da un lato, mostrare che Hamas non è ancora sconfitto, e che quindi quel sostegno è ancora necessario agli sforzi bellici. Dall’altro, tenere aperto il canale negoziale per mostrarsi (almeno all’apparenza) impegnati per una risoluzione. È su questo gioco di equilibrismo che si misurerà il successo della visita di Netanyahu a Washington di questi giorni.

C’è poi la composita compagine governativa di Netanyahu, che spinge in direzioni opposte: da un lato, l’ultradestra di Ben Gvir si oppone a qualsiasi compromesso e anzi sogna di vedere Gaza occupata e colonizzata. Dall’altro, il ministro della difesa Gallant guida il fronte per il cessate il fuoco, e anzi non ha risparmiato gli attacchi verso i tentativi di Netanyahu di fare naufragare o per lo meno ritardare un accordo.

Infine, Netanyahu deve fare i conti con l’opinione pubblica interna: secondo un recente sondaggio realizzato dal canale televisivo Keshet 12, il 72% degli israeliani vuole le dimissioni del premier, il 44% immediatamente e il 28% una volta conclusa la guerra. Si intravede allora un’ulteriore motivazione dietro allo stallo voluto dal premier: la volontà di restare aggrappato al potere il più a lungo possibile, per ritardare il declino politico (e i guai giudiziari) che lo aspettano una volta lasciato l’incarico.

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