Il Governo contro i giudici evoca il «golpetto»

La questione giudiziaria «dentro» la politica rimane sempre «il punto»
Il vicepremier Matteo Salvini - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Il vicepremier Matteo Salvini - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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Gira e rigira, si possono cambiare il decennio e l’angolo visuale, ma la questione giudiziaria «dentro» la politica rimane sempre «il punto». Perfino quando viene soltanto evocata, insieme a qualche più o meno improbabile complotto.

L’autunno caldo – che, purtroppo, tale sarà sia dal punto di vista sociale che economico – viene annunciato e preceduto per il governo di Giorgia Meloni dal rapporto molto complicato con la giustizia e la magistratura che, secondo alcuni osservatori, è arrivato al culmine e a un parossismo mai visto in precedenza.

Da Giovanni Toti, che ha patteggiato – creando così ulteriori grattacapi alla coalizione nazionale che ha sostenuto la sua giunta regionale – e sconterà 1.500 ore di lavori sociali alle (tardive) dimissioni del ministro Gennaro Sangiuliano, dalla ventilata (e, ovviamente, mai documentata) «cospirazione» nei confronti di Arianna Meloni al colpo di spugna sulla legge Severino e alla «riforma della giustizia» di Carlo Nordio, la sequenza dei conflitti fra classe politica e giudici è nutritissima.

E i toni si sono infiammati in modo esponenziale a proposito della richiesta di condanna a sei anni di Matteo Salvini (ministro dell’Interno all’epoca dei fatti contestati) nel «processo Open Arms». Le dichiarazioni degli esponenti della maggioranza in sua difesa risultano fortemente bellicose, ma a colpire in particolare è l’affondo della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che ha parlato di un «precedente gravissimo», strappando e «scartando» così in maniera massiccia anche rispetto al «filone» giustizialista della destra.

Le forze del destracentro vogliono accreditare l’interpretazione di un attacco da parte della magistratura all’azione della politica, ovvero l’equivalente di un «golpetto» per delegittimare i «rappresentanti del popolo» a opera di chi «non è stato votato». Non si tratta di una novità in assoluto, ma della linea difensiva tipica di tanta politica in generale, e di quella populista in modo peculiare, che moltiplica i segnali di insofferenza e di malmostosità nei riguardi di quel costituzionalismo liberale che trova nella divisione dei poteri il suo fondamento.

Con tanto di tecnotruppe di rincalzo, dal momento che Elon Musk ha trovato il tempo di twittare contro la procura di Palermo a sostegno dell’«amico» Salvini.

D’altronde, oltre al gioco di sponda fra il tycoon high-tech sovranista e il leader che ha convertito la Lega già partito macroregionale in - zoppicante - formazione nazionalpopulista, c’è anche la propensione salviniana per la propaganda digitale. E per quella in generale, come ha mostrato il vicepremier e ministro dei Trasporti con il suo (impostatissimo) video di ieri, nel quale si «dichiara colpevole» della difesa della patria e dei confini nazionali, e della tutela dell’art. 52 della Costituzione - all’antitesi della motivazione della sentenza in cui i giudici lo accusano di avere perseguito un interesse elettoralistico individuale, avendo pure deliberatamente evitato di coinvolgere nelle decisioni i colleghi dell’esecutivo di allora.

Come tipicamente avviene, al cospetto della «minaccia» esterna anche un esecutivo percorso da svariati dissensi e linee di frattura politico-programmatica fra i suoi componenti (ancorché in assenza di un’alternativa politica dotata di chances) si ricompatta. Almeno in attesa dell’arrivo della data del 10 ottobre, la giornata in cui è prevista la decisione della procura di Milano sul rinvio a giudizio della ministra Daniela Santanchè.

Ma questo governo - specie la sua presidente e il relativo cerchio magico - risulta ipersensibile alle ipotesi complottistiche; basti guardare, da ultimo, alla ridda di tensioni scatenate dall’incontro fra Mario Draghi e Marina Berlusconi. E, dunque, c’è da scommettere che ci ritroviamo soltanto all’inizio della serrata dei ranghi e della creazione di nemici a getto continuo - anche, giustappunto, per coprire le differenze di vedute, la competizione interna e gli scontri di potere.

Massimiliano Panarari – Sociologo della comunicazione, Università di Modena e Reggio Emilia

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