Così si perde credibilità

Sangiuliano è finito al Tg1 a giustificarsi sull’orlo delle lacrime e i telespettatori verosimilmente sconcertati nel vedere un ministro della Repubblica essere costretto dalla politica a dare in televisione un’immagine che certo non è stata la sua migliore degli ultimi anni (nonostante le gaffes che pure, nel tempo, non gli sono mancate).
Se ci si chiede perché l’astensionismo alle elezioni politiche, Europee e Amministrative è fra il 40 e il 50%, ci si deve interrogare anche su tre punti: 1) la qualità del personale politico, che rispetto alla Prima Repubblica non sembra affatto migliorato (per usare un eufemismo); 2) l’indecisionismo, che in questo caso si è visto quando il ministro ha presentato dimissioni che andavano accettate subito (per evitare stillicidi mediatici, che costano voti ma soprattutto credibilità) ma che sono state prima congelate e alla fine (quando forse si temeva ci fossero altre nubi in arrivo) accettate; 3) lo iato che c’è stato, in questi anni, fra crescite elettorali esponenziali e crescita del personale politico di alto livello dei partiti beneficiati di volta in volta dagli italiani (quando si aumentano i voti arrivano molti nuovi sostenitori, ma siccome non ci si può fidare degli ultimi venuti bisogna attingere sempre alla cerchia ristretta dei fidatissimi, come è stato almeno da dieci anni a questa parte per tutti i partiti, dal Pd renziano al M5s e oggi a FdI, passando un po’ anche per la Lega del 2018-2019).
Si dirà che non è stato difficile sostituire Sangiuliano con Giuli (che però era stato promosso al Maxxi e che ora lascia un posto libero, creando altri problemi di selezione) perché il nuovo ministro è senza dubbio una persona capace, anche se forse Buttafuoco (della stessa area, ma meno contiguo alla Meloni e molto più autonomo) sarebbe stato altrettanto degno di svolgere questo compito.

Però il problema è come si è arrivati alla soluzione: diceva Flaiano che «in Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco». L’astensionismo cresce perché si perde fiducia in chi fa fatica a prendere decisioni neanche troppo difficili, perché la qualità del personale politico non è delle migliori (e talvolta si è visto, negli ultimi decenni) ma soprattutto perché saper gestire la comunicazione non significa mandare un ministro al Tg1 per un quarto d’ora, ma analizzare la situazione e i risvolti per evitare brutte figure (la «comunicazione di crisi» va studiata e applicata, a certi livelli). In sintesi, l’elettore può perdonare la scappatella, ma non la sciatteria, l’approssimazione, la confusione. Queste cose fanno male alla democrazia: chi vuole scrivere la storia dovrebbe saperlo.
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