Donald Trump e la maledizione della politica estera

E dopo la pseudopoesia della passerella di Anchorage - per parafrasare indegnamente la famosa frase crociana - la prosa del palcoscenico di Tianjin e dell’imponente parata militare di Pechino di ieri, ideale suggello militare della conferenza della Sco. Ossia, il passaggio dallo strombazzato e fallimentare incontro artico di Ferragosto fra Trump e Putin - con il primo tutto impegnato a stendere tappeti rossi al dittatore del Cremlino, uscitone pienamente rilegittimato - alla (dura) realtà del 25esimo vertice del Consiglio dei capi di Stato della Sco (l’Organizzazione per la cooperazione di Shangai) di questi giorni.
Ulteriore dimostrazione di forza della Cina, dove in occasione del summit - la Russia è cofondatrice e copromotrice, dal 2011, di questo forum per la sicurezza dell’area eurasiatica - Putin è stato accolto con la consueta retorica dell’«eterna amicizia» tra i due Paesi, in questo caso più che vera. Alla faccia della (demenziale) strategia di Trump basata sull’idea di separare Putin da quella Cina che gli Usa considerano l’autentico nemico «esistenziale», e la potenza portatrice della sfida per l’egemonia globale.
E che, a guardare le immagini e a leggere i resoconti del summit di Tianjin, ha appena posto una significativa ipoteca sul suo riconoscimento - anche se alcuni dei partecipanti non vorrebbero “morire cinesi” - quale leader indiscutibile di quel Sud globale che, declinato nel “formato Brics” (uno dei vari possibili) detiene il 51% della popolazione e il 40% del Pil del pianeta.
A voler prendere la questione per un altro verso, e da un punto di vista più sistemico, si potrebbe altresì dire che esiste una difficoltà di fondo delle destre neopopuliste e sovraniste in questo campo, quella che andrebbe etichettata come la «maledizione della politica estera». L’ambito delle relazioni internazionali costituisce, infatti, per i trumpisti una sorta di buco nero, una “maledizione” per l’appunto, perché prevede complessità che non si rivelano in grado di padroneggiare e, anzi, che liquidano nel nome di un manicheismo che, per quanto possa sembrare paradossale, assume connotati di tipo ideologico.
Mentre, abitualmente, tendono a ridurre la politica estera a un agglomerato composito di relazioni bilaterali fra le nazioni ispirate dalla legge del più forte e dal «paradigma del far west». Anche perché la larghissima maggioranza del loro elettorato risulta orientata da una forma spiccia e semplificata di nazionalismo estremista, e non è interessata a nulla di quello che succede al di fuori dei confini (“Maga”, giustappunto), limitandosi sostanzialmente a sventolare bandierine a stelle e strisce per riaffermare tale concezione in occasione delle convention del Partito repubblicano.
President Trump Participates in a Bilateral Meeting with the President of the Republic of Poland https://t.co/4C9b1ky3GZ
— The White House (@WhiteHouse) September 3, 2025
Con la significativa differenza che le élites del Gop possedevano un’agenda in materia, naturalmente ispirata dalla politica di potenza nelle relazioni internazionali, mentre Trump ha eliminato una dopo l’altra le figure non appartenenti al circoletto ristretto dei fedelissimi “senza se e senza ma” della sua prima Amministrazione, circondandosi in via esclusiva di yeswomen e yesmen inadeguati e servili (come il segretario alla Difesa Pete Hegseth), e ora si presenta «tutto chiacchiere e distintivo» (e, nella fattispecie, interessato al business prima di ogni altra cosa). Come sostengono varie fonti, perfino la sua “eminenza grigio-nera” di livello più elevato, il profeta della Silicon Valley reazionaria Peter Thiel, gli avrebbe prospettato che tertium non datur, ovvero l’esigenza di una qualche modalità di appeasement con la Cina, oppure il ripristino dell’alleanza con l’Europa, ricordandogli che Putin è un nemico degli Usa e non un potenziale partner, e che rimarrà a fianco di Pechino (come è apparso evidente, per l’ennesima volta, nelle scorse ore).
Ma non c’è nulla da fare: il rodomonte “Attila”-Trump sta picconando forsennatamente quell’ordine liberale internazionale che vedeva proprio gli Stati Uniti come nazione-guida, e sta contribuendo a riportare - insieme ai tanti nemici dell’Occidente (e ad alcuni suoi amici come Netanyahu) - il contesto globale allo stato di natura hobbesiano. Del resto, è arrivato persino a commentare l’esibizione militare di Xi Jinping (durata oltre un’ora e mezza, con contenuti marcatamente revisionistici della storia, e rivolta in primo luogo contro l’America) definendola «bellissima». Sarebbe una farsa, e invece, malauguratamente, è una tragedia: quella di chi, pur nel suo immane potere, non può che venire etichettato come un «uomo ridicolo». E (ahinoi) di tutto l’Occidente...
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