Democrazia a bassa intensità: serve una cura, e in fretta

A manifestare questa preoccupazione è stato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella - Foto Francesco Ammendola
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella - Foto Francesco Ammendola
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Recentemente Sergio Mattarella in più di un’occasione ha manifestato le proprie preoccupazioni circa lo stato di salute della democrazia, in generale, ma pure in rapporto alla situazione italiana, parlando di «democrazia affievolita». Nel suo intervento a Genova, lo scorso 25 aprile, avocando le speranze della stagione resistenziale e riferendosi al disegno raffigurato dalla nostra Costituzione, il Presidente ha fatto un esplicito riferimento ad una «democrazia a bassa intensità» di cui uno dei sintomi è rappresentato da un tasso sempre più elevato di astensionismo elettorale.

Un fenomeno che ha trovato ulteriore conferma in occasione sia delle recenti consultazioni amministrative sia della prova referendaria da poco conclusa. Essa ha visto una partecipazione molto al di sotto del quorum previsto per la sua validazione. In questo caso peraltro è venuto allo scoperto un macroscopico paradosso: vale a dire che con poco più di 12 milioni di voti è possibile conquistare il Governo – la vittoria di Giorgia Meloni e della sua maggioranza –, mentre con circa 15 milioni di voti non si riesce ad abrogare alcune, poche norme.

La premier Giorgia Meloni e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella - Foto Ansa/Paolo Giandotti
La premier Giorgia Meloni e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella - Foto Ansa/Paolo Giandotti

Nel caso specifico dell’istituto del referendum, il problema può essere risolto in chiave di tecnicalità. Tra le diverse ipotesi prospettate la più plausibile a mio avviso è quella che suggerisce di correlare il quorum del 50% non al totale degli aventi diritto al voto, ma al numero dei votanti della legislatura in cui il referendum è sottoposto agli elettori. Nel caso dell’ultima celebrazione, dunque, il 64% del corpo elettorale.

Il che avrebbe indotto, visto il possibile raggiungimento della soglia prevista, tutti i partiti a mobilitarsi al fine di far prevalere le proprie posizioni rispetto ai rischi comportati da una diffusa astensione. Essa, come è evidente, chiama in causa la rappresentatività della democrazia, portando allo scoperto la sua precarietà con tutto quel che ne consegue in un tempo di «policrisi», come oggi da più parti si teorizza allorquando un ordine vecchio sembra tracollare e quello nuovo fatica ad imporsi.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla «Conferenza sulla ripresa dell’Ucraina 2025» - Foto Francesco Ammendola
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla «Conferenza sulla ripresa dell’Ucraina 2025» - Foto Francesco Ammendola

Si tratta dunque di andare ben oltre la tecnicalità, comunque necessaria, e di risalire alle motivazioni profonde dell’astensionismo quale espressione di un sentiment antipolitico assai pericoloso per le sorti della democrazia: sia che esso risulti frutto di apatia del benessere, sia che si presenti come espressione di un «rancore di classe» che sostituisce il voto di classe della Prima Repubblica.

Un non voto difficilmente suscettibile di essere recuperato se non in direzione dei partiti populisti, sovranisti, euroscettici, tenuto conto peraltro di una ormai cronica disaffezione dell’elettorato della Sinistra. Partiti che puntano al predominio dell’esecutivo, ad una alterazione dell’equilibrio dei poteri, alla riduzione del parlamento a mero luogo di transito per l’approvazione scontata dei provvedimenti governativi, in nome del principio «voglio, posso, comando» e in vista di un «autoritarismo di maggioranza».

La segretaria del Pd Schlein - Foto Ansa
La segretaria del Pd Schlein - Foto Ansa

Come scrive, con un’immagine assai efficace, Federico Fornaro, sembrerebbe che un Anobium punctatum – il tarlo del legno dall’azione corrosiva – stia insidiando la nostra democrazia. Il quadro è questo: diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza e del reddito, una questione sociale che annovera persino la figura del «lavoratore povero», declino demografico, attacco ai servizi universalistici, disequilibrio del sistema pensionistico e inequità di quello fiscale. E ancora: incertezza del futuro, ansia diffusa e una politica della paura, le smentite accusate da una visione ottimistica della globalizzazione, diffusione di fake news e post-verità, avvelenamento dei pozzi della conoscenza e perdita di memoria storica, processi di disintermediazione facilitati dalla Rete e chiusura di ciascuno nella propria bolla.

Insomma degrado sociale e, per usare un ossimoro, deriva verso la democrazia illiberale di cui la crisi della fedeltà al voto è insieme sintomo e causa. Tutto questo e la perdita di radicamento dei partiti, la scomparsa del loro ruolo pedagogico, il successo della «democrazia del pubblico» – la politica come rappresentazione pubblicitaria di una democrazia recitativa – ci dicono che il ricorso alla tecnicalità altro non può essere che un palliativo e che solo il ritorno alla politica, intesa come elaborazione progettuale animata da passione civile per l’interesse generale e il bene comune, può consentire una cura atta alla guarigione della «democrazia a bassa intensità».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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