Barnier, il passato che non passa

Non poteva esserci immagine migliore per immortalare il giro di boa che la politica francese sta vivendo: il più giovane primo ministro della Quinta Repubblica, Gabriel Attal, 35 anni, che lascia il posto al più anziano, il 73enne Michel Barnier. Al di là del dato anagrafico, la fotografia racconta un fatto politico decisamente più rilevante: la nomina di un veterano della destra neogollista, politico di professione da quasi mezzo secolo, è la rappresentazione plastica del naufragio del macronismo, nato come tentativo di superare il bipolarismo tradizionale proponendo volti, proposte e pratiche di democrazia nuove e ridotto oggi a mera gestione del potere.
Certo, l’esito delle elezioni legislative di due mesi fa, che hanno prodotto un’Assemblea nazionale divisa in quattro blocchi apparentemente indisponibili a formare una maggioranza di compromesso, ha lasciato a Macron un margine di manovra molto ridotto. Ma quella di Barnier è tutt’altro che una scelta obbligata. Tra le ipotesi circolava per esempio quella di un premier espressione della società civile: uno scenario inedito per la Francia, ma che sarebbe stato coerente con la necessità di «inventare una nuova cultura politica» che il presidente aveva espresso all’indomani del voto.
Se certamente lo è sul piano politico, dal punto di vista tattico (quello, appunto, della mera gestione del potere) la nomina di Barnier non è però una sconfitta per l’inquilino dell’Eliseo. Macron è riuscito a tenere lontani da Matignon sia il Rassemblement National di Marine Le Pen che La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, i due «estremi» che avrebbero portato, stando a quanto ha dichiarato il presidente a giugno, alla «guerra civile».
Le credenziali di Barnier, poi, rispondono all’esigenza, prioritaria per Macron, di rassicurare i mercati e Bruxelles. Ma questa delicata operazione porta anche un’altra firma. È quella di Marine Le Pen che, pur restando fuori dal governo, è riuscita a ritagliarsi il ruolo indiscusso di kingmaker o, come preferiscono dire i francesi fedeli alla tradizionale ostilità agli anglicismi, «faiseuse de roi».
DIRECT | Michel Barnier a eu un échange téléphonique «chaleureux et amical» avec son prédécesseur Gabriel Attal ce lundi matin
— Le Parisien (@le_Parisien) September 9, 2024
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È chiaro: Macron non avrebbe nominato Barnier se non avesse ottenuto da Le Pen la garanzia che il Rassemblement National non avrebbe votato la sfiducia come invece farà la sinistra. Il nuovo esecutivo potrà quindi governare anche senza maggioranza assoluta in parlamento, almeno finché la destra lepenista deciderà di tenerlo in vita astenendosi in occasione delle mozioni di sfiducia. Certo, questo obbligherà il governo a costruire di volta in volta maggioranze di compromesso sui singoli provvedimenti. Ma anche su questo Le Pen si è detta aperta al dialogo, sapendo che su alcune questioni, specie quella migratoria, le posizioni di Barnier non sono molto distanti da quelle del Rassemblement National.
Anche la sinistra esce per certi aspetti vittoriosa, o per lo meno non sconfitta, da questa maratona post-voto. Certo, è sfumata la possibilità di governare.
Ma forse è meglio così: l’assenza di maggioranza assoluta avrebbe costretto la coalizione a rinunciare a gran parte del programma, senza considerare il fatto che macronisti e destre avrebbero sfiduciato immediatamente un esecutivo composto da membri de La France Insoumise. È invece già una vittoria che la coalizione sia rimasta unita nonostante i tentativi di Macron di portare dalla sua l’ala più moderata, come ha provato a fare proponendo prima di Barnier il nome del socialista Bernard Cazeneuve. Altro protagonista di quella storia politica che Macron aveva promesso di archiviare e a cui, invece, è costretto ad aggrapparsi.
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