Tra gli scheletri di cemento: viaggio nel tempo tra le fabbriche abbandonate dietro via Milano

Che storia hanno le industrie tra via Stefana, il Vantiniano e via Eritrea che da anni vediamo vuote? L'abbiamo ricostruita qui
Una veduta dall'alto dei capannoni dismessi - Foto New Reporter Nicoli © www.giornaledibrescia.it
Una veduta dall'alto dei capannoni dismessi - Foto New Reporter Nicoli © www.giornaledibrescia.it
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Sui muri più intatti è disegnato qualche graffito, opera di street artist che oggi attira fotografi e Instragammer della scena più underground. Il resto è un gigantesco scheletro di tettoie, travi di cemento e pali d’acciaio su cui le sterpaglie e il tempo hanno avuto il sopravvento. 

A Brescia sono pochi ormai quelli che ricordano i nomi delle fabbriche abbandonate affacciate sulle strade che fanno da arterie intorno a via Milano, in quel reticolo che nel Novecento era il cuore industriale della città e oggi è diventato l’ambizioso obiettivo di rigenerazione urbana del Comune. Che deve però fare i conti con varianti urbanistiche, irrisolti disastri ambientali di proporzioni immani come la Caffaro e una trasformazione sociale dirompente.

La torre del cimitero Vantiniano visto dai capannoni della ex Togni in via Stefana - Foto New Reporter Nicoli © www.giornaledibrescia.it
La torre del cimitero Vantiniano visto dai capannoni della ex Togni in via Stefana - Foto New Reporter Nicoli © www.giornaledibrescia.it

È una zona che in linea d’aria circonda il cimitero Vantiniano e parte da via Eritrea per proseguire fino alle Case del Sole, a ridosso della tangenziale ovest in fondo a via Milano. Comprende il cosiddetto Comparto Milano, 136.651 metri quadrati oggi in gran parte proprietà della società Basileus Spa, in parte il perimetro del Sito di interesse nazionale Caffaro e lo spazio che dovrebbe accoglie il Musil, Museo dell’Industria e del lavoro. Ospita quelle che un tempo erano le più grandi industrie di Brescia: l'acciaieria Togni, la Metallurgica Tempini, la Radiatori, l’Acciaieria Danieli, Europa Metalli, la Cidneo e la Caffaro.

Se la si percorre da via Stefana verso via Rose fa impressione: la strada deserta o battuta da camion che vanno verso la tangenziale Ovest passa in mezzo alle facciate storiche della ex Togni, diroccate e crollate più volte anche di recente, con i mattoni consumati e le arcate invase dagli arbusti selvaggi e dai rifiuti di chi si accampa la notte. È la stessa scena che si poteva vedere anche vent’anni fa, perché nulla è cambiato da allora. E se chi non c’era ancora è abituato da sempre a questo set bizzarro e un po’ straniante così vicino al centro città, chi invece l’ha visto cambiare ha perso il conto delle modifiche, dei piani regolatori e degli intoppi che ancora lo mantengono tale.

Ma perché si è venuto a creare? E cos'erano e cosa facevano quelle industrie? Verranno mai riqualificate? Questo racconto a puntate nella storia di quegli scheletri di cemento è soprattutto per chi non li ha mai visti diversi da così e si è sempre chiesto cosa fossero in origine.

Il vicinato industriale dei «maister»

Un tempo la zona intorno a via Milano era la terra dei «maister», i maestri del lavoro artigiano, della metallurgia e della meccanica che a metà Ottocento capirono come trasformare i numerosi corsi d’acqua lì intorno in forza motrice idraulica per i primi siti produttivi. Bisogna immaginarla come una zona in grande fermento, dove i campi agricoli di inizio secolo vennero sostituiti dalle prime case con bottega e magazzino legnami, e soprattutto da piccoli laboratori e opifici di medie dimensioni.

La scena è via Milano: al posto dei negozi etnici e del quadrilatero urban chic con la Fiorellaia e il laboratorio Lanzani di oggi, qui è dove si iniziano a produrre fruste e ventagli, aprono le prime officine meccaniche che attingono dal canale chiamato Fiume Grande e che a cavallo dell’Unità d’Italia cominciano a popolare l’area tra Porta San Giovanni (l’attuale piazza Garibaldi) e il quartiere Fiumicello. Arrivano, tra le altre, la ditta di Ottavio Almici, poi sostituita dalla più grande Ceschina, Busi&Co, e la storica fucina di Rinaldo Luzzini. Queste attività nel 1887 fanno parte dei 113 stabilimenti censiti sul territorio bresciano su un totale di 220 a livello nazionale. Ma sono soprattutto gli anni in cui nascono due fabbriche che cambiano definitivamente volto a quella porzione di città: la Tempini e la Togni

Lo scheletro vuoto della ex Togni in via Stefana - Foto New Reporter Nicoli © www.giornaledibrescia.it
Lo scheletro vuoto della ex Togni in via Stefana - Foto New Reporter Nicoli © www.giornaledibrescia.it

Su una pagina del Giornale di Brescia del 2006 lo storico Franco Robecchi descrive così lo sviluppo della zona: «Sulla linea che va da San Bartolomeo a via Milano e sino a via Dalmazia si ebbe un fiorire di ruote idrauliche e di laboratori, che divennero poi la S. Eustachio, l’Om, la Tempini. Quel territorio ebbe il maggior successo poiché al corso d’acqua, al collegamento con la Valtrompia, si sommarono due altri fondamentali requisiti: il collegamento con la grande strada per Iseo, Chiari e Milano e il raccordo con la nuova ferrovia Milano-Venezia, nonché con la Brescia-Iseo-Edolo. Fu così che la zona occidentale di Brescia, fuori le mura, attorno al cimitero, ma estesa anche a nord, divenne la zona industriale per eccellenza, nonché la zona operaia con la nascita delle case per i lavoratori».

Gli storici locali

La storia di queste industrie è stata ricostruita, oltre che da Robecchi, da mons. Antonio Fappani, l'autore dei 22 volumi dell’Enciclopedia Bresciana (prima stampa nel 1974), e in tempi più recenti da Marcello Zane, giornalista e docente all’Accademia Santa Giulia, autore di «Brescia. La città delle fabbriche» (2008), con le immagini d’epoca dell’archivio della Fondazione Negri.

Il libro La città delle fabbriche di Marcello Zane
Il libro La città delle fabbriche di Marcello Zane

Secondo Zane lo sviluppo di via Milano è stato uno dei più dirompenti della città: «In 150 anni via Milano ha avuto una vita molto articolata e stratificata. È qui che, per esempio, durante la Grande guerra per la prima volta a Brescia il numero delle industrie supera quello delle aziende agricole e si producono armi per tutto l’esercito italiano». Sono queste fabbriche che hanno innescato il primo processo di immigrazione che caratterizza la zona da tempo, tanto da farne oggi un tratto distintivo e radicato (contrariamente a chi ritiene si tratti di un fenomeno recente): «Con lo sviluppo industriale di fine Ottocento sono arrivati i primi operai dalle valli, durante la guerra vennero duecento lavoratori dalla Libia per la Togni e la Tempini, tanto che l’attuale parco della Rosa Blu era chiamato la zona araba - continua Zane -. Poi fu il turno dei lavoratori dal Sud Italia e solo alla fine degli anni Novanta vi si stabilirono i primi extracomunitari».

Eppure oggi lo stato di abbandono delle fabbriche dismesse ci rende difficile immaginarla come una vivace area industriale e in crescita demografica. Attingiamo quindi da Zane, in parte da Fappani e da articoli d’archivio del Giornale di Brescia per raccontarvela, in sintesi, negli approfondimenti che trovate nei link correlati in questo articolo, dedicati: alla Togni e alla Tempini, all'Ideal Standard quando si chiamava Radiatori, e al loro futuro, forse, che per ora è presente solo sulla carta. 

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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