Fabbriche abbandonate, l’impero decaduto della Togni e della Tempini

Prosegue il viaggio nel cimitero di cemento dietro via Milano con la storia di due imprese che hanno fatto la storia industriale di Brescia
I capannoni diroccati della ex Togni su via Stefana - Foto New Reporter Nicoli © www.giornaledibrescia.it
I capannoni diroccati della ex Togni su via Stefana - Foto New Reporter Nicoli © www.giornaledibrescia.it
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Dietro il cimitero Vantiniano c’è un altro cimitero fatto di scheletri di cemento e metallo. È la prima zona industriale di Brescia, che un tempo si snodava tra via Stefana, via Milano, la tangenziale Ovest e via Eritrea e da decenni è caduta in uno stato di abbandono rispetto a cui, ad oggi, non ci sono ancora prospettive concrete di riqualificazione.

Questa è la seconda puntata di un approfondimento che ricostruisce, attraverso l’aiuto di alcuni storici locali, la storia di queste fabbriche abbandonate nella zona di via Milano per chi le ha sempre viste così e si è sempre chiesto cosa fossero e perché sono cadute in disgrazia. Le fonti storiche principali sono il libro «Brescia. La città delle fabbriche» (2008) di Marcello Zane, l'Enciclopedia Bresciana di Antonio Fappani e l'archivio del Giornale di Brescia.

Il cavaliere self made man di Borgo San Giovanni

Il primo protagonista in questa storia delle fabbriche abbandonate dietro via Milano è Giovanni Tempini (1854-1913). Operaio allevato nella fucina paterna, a fine Ottocento Tempini decide che la sua strada è creare un’impresa per la fusione e la lavorazione del ferro. Parte da Lumezzane dove apre una fucina ad acqua, diventando pioniere della fusione di acciaio finissimo in crogiolo. Nel 1886 lo troviamo già a Brescia dove acquista un appezzamento di terreno di 1.500 metri quadri vicino alla stazione ferroviaria e al Fiume Grande. È il nucleo di quello che diventerà la Metallurgica Tempini, fra le più antiche industrie cittadine, concepita per essere uno stabilimento moderno e ordinato.

In pochi anni la fabbrica cambia il nome tre volte – Tempini, Polotti&Parma, Società Anonima e Metallurgica Tempini – mentre il titolare si inserisce con maestria nel mondo della finanza e della politica (diventa amico fra gli altri di Giuseppe Zanardelli). Tempini è un self-made man, ottiene il riconoscimento di Cavaliere del Lavoro nel 1905, dal nulla crea una delle industrie più importanti della città. Grazie a finanziamenti della Banca Unione Italiana e di grosse industrie tedesche, comincia a produrre bossoli metallici, armi e munizioni, apre fonderie, laminatoi, trafilerie di rame, nichel, alluminio e altre leghe. Impiega 400 operai, che negli anni Dieci del Novecento sono già oltre mille, con la struttura iniziale di 27mila metri quadri che si amplia fino a 42mila.

Il boom per Tempini arriva con la Prima guerra mondiale, che porta 10mila addetti e un aumento vertiginoso della produzione di armi, ad iniziare da tutte le mitragliatrici italiane del tempo. Nel 1925 c’è un grosso aumento di capitale (cinque milioni e 200mila lire), con l’ingresso della Società Metallurgica Italiana (SMI) della famiglia Orlando. La fabbrica resiste alla crisi del 1929 e si afferma tra i più importanti gruppi italiani della lavorazione dei metalli non ferrosi. Negli anni Trenta riceve importanti commesse dalla Zecca di Stato, tanto che l’ala degli stabilimenti confinante con il Vantiniano in via Stefana viene adibita alla fusione di monete.

Durante la Seconda guerra mondiale la Tempini realizza armi e i suoi clienti sono la Marina e l’Aeronautica Militare, il ministero della Guerra e altre grosse industrie belliche come la Fiat. Segue un periodo di declino, che culmina negli anni Settanta nel cambio di proprietà, grazie alla fusione della SMI con le Trafilerie e Laminatoi di Metallo, che insieme danno vita alla LMI, poi controllata dalla GIM degli Orlando. A questo punto la ex Tempini perde definitivamente i connotati originali diventando parte di una holding industriale. 

Chiude con poche decine di dipendenti. Parte degli edifici vengono riutilizzati per l’isolato commerciale chiamato «Brescia Uno» e per la nuova sede del quotidiano BresciaOggi. Oggi l’area appartiene al Comparto Milano, di proprietà della società Basileus.

Il figlio del fontanèr camuno che conquistò Porta San Giovanni

Una facciata dello stabilimento Togni di via Stefana - Foto New Reporter Nicoli © www.giornaledibrescia.it
Una facciata dello stabilimento Togni di via Stefana - Foto New Reporter Nicoli © www.giornaledibrescia.it

La seconda storia in questo viaggio a ritroso tra le fabbriche abbandonate è quella di Giulio Togni (1869-1933), figlio di un «fontanèr» (Giacomo) della Valcamonica. 

Togni comincia con l’installazione di bagni e impianti idrici per le case succedendo al padre, ma presto passa agli acquedotti, partecipando alla costruzione del nuovo acquedotto municipale. È il 1903 quando la Premiata ditta Giacomo Togni (dal nome del padre) acquista un terreno a fianco del cimitero, fuori Porta San Giovanni. Produce tubazioni in acciaio per condotte forzate, saracinesche, pompe a mano e a motore per usi privati e industriali. È uno stabilimento elegante, disegnato da Egidio Dabbeni, progettista allora trentenne che realizza anche le sedi della Franchi Armi, i padiglioni della Tempini in via Stefana e quelli dell’Esposizione in Castello del 1904.

Nel 1906 la società prende il nome di Officine Metallurgiche Togni e passa da un’area di 4.000 metri quadri a 20mila. L’officina meccanica occupa inizialmente 500 operai, ma a ridosso della Prima guerra mondiale sono già diventati mille. Alla vigilia del conflitto viene venduto il reparto veicoli in seguito a una grossa crisi aziendale, velocemente attenuata dalle grandi commesse di guerra che portano nel 1916 all’apertura della Siderurgica Togni, una nuova società dedicata alla lavorazione meccanica che assorbe in parte la precedente società e apre una sezione proiettificio con 600 dipendenti. Ne fanno parte anche l’Ilva e le banche locali San Paolo e Credito Agrario Bresciano.

Un comparto in rovina della ex Togni in via Eritrea - Foto New Reporter Nicoli © www.giornaledibrescia.it
Un comparto in rovina della ex Togni in via Eritrea - Foto New Reporter Nicoli © www.giornaledibrescia.it

Togni arriva ad avere circa duemila dipendenti, che nell’ultimo anno e mezzo di guerra sfornano tre milioni di parti di proiettili. Per rispondere alle esigenze industriali del dopoguerra Giulio Togni apre la Società Italiana Tubi Togni, che occupa circa 1.400 persone.

La crisi del ’29 porta a un calo drastico della produzione. Dopo la morte improvvisa di Giulio Togni avvenuta il 26 agosto 1933, nel giro di pochi mesi la Siderurgica e la Tubi vengono liquidate: al loro posto subentra a inizio 1934 l’Acciaieria e Tubificio di Brescia (ATB), fondata da una partnership tra la Falck e l’Ilva, che era già partner di minoranza del gruppo Togni. L’ATB continua a produrre condotte forzate per impianti idroelettrici finché viene occupata dalle truppe tedesche e poi bombardata. 

La ripresa arriva negli anni Cinquanta, quando l’azienda dà lavoro nei suoi tre stabilimenti, che occupano 140mila metri quadri, a circa 2000 dipendenti suddivisi in decine di reparti, tra i quali il reparto tubi su via Fratelli Ugoni (l’attuale Freccia Rossa) e le Presse o Bombole in via Eritrea. Produce laminati di acciaio e di ghisa, bombole per gas compressi e liquefatti, bulloneria grezza stampata a caldo. 

Dopo una breve parentesi di successo con il boom economico, gli anni Settanta portano alla cessione per il 91% a una società costituita appositamente il 9 maggio 1979, la Bisider, con un capitale sociale di un miliardo e 200 milioni sottoscritto in larga parte dalla Società Nazionale Fiduciaria per conto del gruppo Lucchini. ATB continua le sue attività in modo ridotto e chiude nel 2003, quando Sergio Trombini guida la propria realtà aziendale alla sua acquisizione, fondendola con la Riva Calzoni Impianti di Bologna e sede produttiva a Roncadelle.

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