Tra gli scheletri di cemento: viaggio nel tempo tra le fabbriche abbandonate dietro via Milano

Sui muri più intatti è disegnato qualche graffito, opera di street artist che oggi attira fotografi e Instragammer della scena più underground. Il resto è un gigantesco scheletro di tettoie, travi di cemento e pali d’acciaio su cui le sterpaglie e il tempo hanno avuto il sopravvento.
A Brescia sono pochi ormai quelli che ricordano i nomi delle fabbriche abbandonate affacciate sulle strade che fanno da arterie intorno a via Milano, in quel reticolo che nel Novecento era il cuore industriale della città e oggi è diventato l’ambizioso obiettivo di rigenerazione urbana del Comune. Che deve però fare i conti con varianti urbanistiche, irrisolti disastri ambientali di proporzioni immani come la Caffaro e una trasformazione sociale dirompente.

È una zona che in linea d’aria circonda il cimitero Vantiniano e parte da via Eritrea per proseguire fino alle Case del Sole, a ridosso della tangenziale ovest in fondo a via Milano. Comprende il cosiddetto Comparto Milano, 136.651 metri quadrati oggi in gran parte proprietà della società Basileus Spa, in parte il perimetro del Sito di interesse nazionale Caffaro e lo spazio che dovrebbe accoglie il Musil, Museo dell’Industria e del lavoro. Ospita quelle che un tempo erano le più grandi industrie di Brescia: l'acciaieria Togni, la Metallurgica Tempini, la Radiatori, l’Acciaieria Danieli, Europa Metalli, la Cidneo e la Caffaro.
Se la si percorre da via Stefana verso via Rose fa impressione: la strada deserta o battuta da camion che vanno verso la tangenziale Ovest passa in mezzo alle facciate storiche della ex Togni, diroccate e crollate più volte anche di recente, con i mattoni consumati e le arcate invase dagli arbusti selvaggi e dai rifiuti di chi si accampa la notte. È la stessa scena che si poteva vedere anche vent’anni fa, perché nulla è cambiato da allora. E se chi non c’era ancora è abituato da sempre a questo set bizzarro e un po’ straniante così vicino al centro città, chi invece l’ha visto cambiare ha perso il conto delle modifiche, dei piani regolatori e degli intoppi che ancora lo mantengono tale.
Ma perché si è venuto a creare? E cos'erano e cosa facevano quelle industrie? Verranno mai riqualificate? Questo racconto a puntate nella storia di quegli scheletri di cemento è soprattutto per chi non li ha mai visti diversi da così e si è sempre chiesto cosa fossero in origine.
Il vicinato industriale dei «maister»
Un tempo la zona intorno a via Milano era la terra dei «maister», i maestri del lavoro artigiano, della metallurgia e della meccanica che a metà Ottocento capirono come trasformare i numerosi corsi d’acqua lì intorno in forza motrice idraulica per i primi siti produttivi. Bisogna immaginarla come una zona in grande fermento, dove i campi agricoli di inizio secolo vennero sostituiti dalle prime case con bottega e magazzino legnami, e soprattutto da piccoli laboratori e opifici di medie dimensioni.La scena è via Milano: al posto dei negozi etnici e del quadrilatero urban chic con la Fiorellaia e il laboratorio Lanzani di oggi, qui è dove si iniziano a produrre fruste e ventagli, aprono le prime officine meccaniche che attingono dal canale chiamato Fiume Grande e che a cavallo dell’Unità d’Italia cominciano a popolare l’area tra Porta San Giovanni (l’attuale piazza Garibaldi) e il quartiere Fiumicello. Arrivano, tra le altre, la ditta di Ottavio Almici, poi sostituita dalla più grande Ceschina, Busi&Co, e la storica fucina di Rinaldo Luzzini. Queste attività nel 1887 fanno parte dei 113 stabilimenti censiti sul territorio bresciano su un totale di 220 a livello nazionale. Ma sono soprattutto gli anni in cui nascono due fabbriche che cambiano definitivamente volto a quella porzione di città: la Tempini e la Togni.

Su una pagina del Giornale di Brescia del 2006 lo storico Franco Robecchi descrive così lo sviluppo della zona: «Sulla linea che va da San Bartolomeo a via Milano e sino a via Dalmazia si ebbe un fiorire di ruote idrauliche e di laboratori, che divennero poi la S. Eustachio, l’Om, la Tempini. Quel territorio ebbe il maggior successo poiché al corso d’acqua, al collegamento con la Valtrompia, si sommarono due altri fondamentali requisiti: il collegamento con la grande strada per Iseo, Chiari e Milano e il raccordo con la nuova ferrovia Milano-Venezia, nonché con la Brescia-Iseo-Edolo. Fu così che la zona occidentale di Brescia, fuori le mura, attorno al cimitero, ma estesa anche a nord, divenne la zona industriale per eccellenza, nonché la zona operaia con la nascita delle case per i lavoratori».
Gli storici locali
La storia di queste industrie è stata ricostruita, oltre che da Robecchi, da mons. Antonio Fappani, l'autore dei 22 volumi dell’Enciclopedia Bresciana (prima stampa nel 1974), e in tempi più recenti da Marcello Zane, giornalista e docente all’Accademia Santa Giulia, autore di «Brescia. La città delle fabbriche» (2008), con le immagini d’epoca dell’archivio della Fondazione Negri.

Secondo Zane lo sviluppo di via Milano è stato uno dei più dirompenti della città: «In 150 anni via Milano ha avuto una vita molto articolata e stratificata. È qui che, per esempio, durante la Grande guerra per la prima volta a Brescia il numero delle industrie supera quello delle aziende agricole e si producono armi per tutto l’esercito italiano». Sono queste fabbriche che hanno innescato il primo processo di immigrazione che caratterizza la zona da tempo, tanto da farne oggi un tratto distintivo e radicato (contrariamente a chi ritiene si tratti di un fenomeno recente): «Con lo sviluppo industriale di fine Ottocento sono arrivati i primi operai dalle valli, durante la guerra vennero duecento lavoratori dalla Libia per la Togni e la Tempini, tanto che l’attuale parco della Rosa Blu era chiamato la zona araba - continua Zane -. Poi fu il turno dei lavoratori dal Sud Italia e solo alla fine degli anni Novanta vi si stabilirono i primi extracomunitari».
Eppure oggi lo stato di abbandono delle fabbriche dismesse ci rende difficile immaginarla come una vivace area industriale e in crescita demografica. Attingiamo quindi da Zane, in parte da Fappani e da articoli d’archivio del Giornale di Brescia per raccontarvela, in sintesi, negli approfondimenti che trovate nei link correlati in questo articolo, dedicati: alla Togni e alla Tempini, all'Ideal Standard quando si chiamava Radiatori, e al loro futuro, forse, che per ora è presente solo sulla carta.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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