Il dottor Mosca dopo l'assoluzione: «Ora vorrei solo tornare a lavorare in ospedale»

Carlo Mosca racconta i suoi 18 mesi d’inferno: «È la fine di un incubo. Sapevo che i giudici avevano capito la mia innocenza»
Il medico Carlo Mosca sorridente all’uscita dal tribunale dopo la sentenza - Foto Gabriele Strada/Neg © www.giornaledibrescia.it
Il medico Carlo Mosca sorridente all’uscita dal tribunale dopo la sentenza - Foto Gabriele Strada/Neg © www.giornaledibrescia.it
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Sa di aver vinto soltanto il primo tempo della partita. «Nei prossimi giorni mi vedrò con gli avvocati. Attendiamo le motivazioni della sentenza». Ma a parte le dichiarazioni di rito, per Carlo Mosca, primario sospeso dell’ospedale di Montichiari, quella tra il primo e il due luglio non è stata una notte come tutte le altre. Assolto con formula piena dall’accusa di omicidio volontario, per la morte di due pazienti Covid ai quali lui - hanno stabilito i giudici - non ha somministrato alcun farmaco letale, Mosca ha ritrovato la libertà dopo 522 giorni.

Come ha trascorso la prima notte dopo la sentenza?

«Ho ricevuto telefonate fino alle due del mattino. Devo ancora leggere centinaia di messaggi e mail. Mi hanno chiamato colleghi, pazienti e poi dal Pronto soccorso dell’ospedale di Montichiari dove mi hanno detto che stavano festeggiando. Mi hanno chiamato l’attuale sindaco di Montichiari Togni e l’ex primo cittadino Zanola. E ho anche ricevuto una proposta di lavoro dal primario di Seriate. Sono contentissimo».

Però cosa ha pensato quando il pubblico ministero ha chiesto per lei la condanna a 24 anni di carcere?

«Sinceramente non ho pensato a nulla. Sono stato accusato di omicidio volontario per due morti e il pm non ha chiesto l’ergastolo. L’ho visto come un segnale dopo che avevo comunque affrontato con serenità l’ultima settimana prima della sentenza».

Davvero era sereno o lo dice solo ora che ha l’assoluzione in tasca?

«Davvero. Perché avevo capito che i giudici avevano perfettamente inquadrato la situazione. I periti poi erano riusciti a dimostrare che la quantità di Propofol nel cervello di uno dei pazienti era pari a zero e che quindi era stato somministrato dopo la morte e questo è un dato inconfutabile. Così come siamo riusciti a dimostrare che la mattina successiva alla morte di quel paziente uno di due infermieri che mi ha accusato aveva fatto il controllo delle fiale nei frigoriferi firmando il registro e quindi aveva poi fatto la famosa foto del cestino allegata alla denuncia. Quando sono stato interrogato la prima volta dal gip a gennaio sono andato con i miei avvocati Bontempi e Frigo con un cestino dei taglienti utilizzati in ospedale per far vedere come era fatto e dimostrare che non si poteva scattare una fotografia attraverso il coperchio perché l’obiettivo del telefonino non riesce ad immortalare quanto presente sul fondo del cestino. E infatti anche durante il processo poi l’infermiere ha ammesso che le fiale del farmaco le aveva girate per metterle a favore di telecamera».

Quale è stato il momento più difficile?

«Il giorno in cui mi hanno notificato l’avviso di garanzia. Me lo hanno notificato in ospedale dopo che erano stati ascoltati infermieri e medici. Pensavo mi avessero lasciato per ultimo in quanto primario e invece lo hanno fatto per consegnarmi l’atto. Mi hanno dato in mano questo foglio con gli articoli del codice penale. Ho scoperto che mi contestavano l’omicidio volontario. In quel momento mi sono davvero spaventato molto».

In un anno e mezzo prima il gip, poi il Riesame e infine la Cassazione hanno sempre rigettato la richiesta di revoca degli arresti domiciliari. Come ha vissuto quelle fasi?

«Gli avvocati mi avevano informato che sarebbe potuto accadere perché venendomi contestato un reato molto grave, poteva nell’ottica dell’accusa sussistere il rischio di inquinamento probatorio qualora fossi rimasto sul luogo di lavoro e visto il mio ruolo avrei potuto plagiare eventuali testimoni».

Come sono stati questi 18 mesi ai domiciliari?

«Li ho trascorsi in casa con mio padre di 80 anni. Ero agli arresti domiciliari ristretti con divieto di utilizzo del telefono e mi era concesso di vedere mia figlia un sabato ogni due settimane dalle 15 alle 17. Io sono stato costretto a vivere lontano dalla mia famiglia, dalla mia compagna, da mia figlia. I carabinieri venivano a controllare la mia presenza due volte al giorno. Capitava la mattina, alle due di notte, il pomeriggio, la sera. Sono stati mesi molto pesanti».

Quanti anni ha sua figlia?

«Compirà dieci anni a fine luglio e diciamo che i giudici rimettendomi in libertà hanno fatto un bel regalo, a lei e a me. Trascorrerò il compleanno con lei e voglio spendere i prossimi mesi per riguadagnare la fiducia di mia figlia».

Subito dopo la sentenza lei ha commentato: «Giustizia è fatta, ma aspettare così tanto tempo è ingiusto».

«Ho provato sulla mia pelle i tempi della giustizia. Non si possono accettare. Io capisco che a Brescia ci sono solo due corti d’assise e che il presidente Spanò è molto impegnato con tanti processi. Però passare un anno e mezzo ai domiciliari in attesa di giudizio non è giusto».

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Le prime parole di Carlo Mosca dopo l'assoluzione

Ora vuole tornare in ospedale. Quando succederà?

«Spero di ottenere quanto prima il mio posto in ospedale con il mio incarico che mi sono guadagnato. L’università mi ha già confermato che potrò tornare in cattedra. Al Pronto soccorso di Montichiari in questo anno e mezzo di mia assenza è stato affidato l’incarico di responsabile ad una collega. Ora attendo l’Azienda e mi aspetto di riavere quanto avevo ottenuto prima di questa vicenda. Mi piacerebbe tornare dai miei colleghi a Montichiari da agosto, anche senza il ruolo di primario. Sono sempre stato legato all’Azienda Spedali Civili che attraverso i legali mi ha fatto sentire la vicinanza in questo anno e mezzo, pur con la prudenza del caso. Non ci saranno problemi quando ci sarà da discutere con il direttore generale per ricominciare».

I due infermieri che l’hanno accusata ora sono accusati di calunnia.

«Atto giusto, ma non mi interessa fare un processo mediatico. Dal punto di vista mentale comunque il mio approccio al lavoro non cambierà, anche se questa esperienza mi servirà per giudicare meglio le persone. L’invidia nei miei confronti c’è sempre stata. A 47 anni sono diventato primario e tre anni prima avevo ottenuto la cattedra universitaria e la carriera me la sono costruita da solo. I miei primari mi hanno sempre detto: "Se stai simpatico a tutti, sei uno stolto perché solo gli stolti fanno ridere tutti. C’è sempre qualcuno che dietro alle spalle ti può pugnalare". Un insegnamento che mi tengo dentro».

In attesa delle motivazioni della sentenza, cosa le resta di questo caso che l’ha travolta?

«In questo anno e mezzo ho letto tanto e faccio mia una frase di Nelson Mandela: "O vinco o imparo". Io in questo anno e mezzo non ho imparato. Ma alla fine ho vinto».

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