Vent’anni senza Marco Pantani: il ricordo dei bresciani a cui cambiò la vita

Erano le prime ore della sera quando l’Ansa batté la notizia: Marco Pantani è deceduto al residence Le Rose di Rimini. La notizia deflagrò nel cuore e nelle menti di tutti gli appassionati di ciclismo e non solo, perché il romagnolo era un atleta capace di bucare lo schermo ed appassionare anche chi fino a quel tempo giudicava quello uno sport da «sfigati». Non nego, da giovane cronista, di aver letto la notizia con gli occhi lucidi memore degli ultimi fugaci incontri alle corse con il Pirata, già mito ma dallo sguardo assente, perso in mille pensieri, inconsapevole dell’enorme affetto che il popolo del ciclismo, a bordo strada, nutriva per lui.

Le vicende giudiziarie che hanno accompagnato il suo declino sportivo dopo i fatti di Campiglio nel 1999 con il controllo dell’ematocrito ampiamente previsto e l’onta di venire considerato un imbroglione, nonché le circostanze poco chiare che hanno portato alla sua morte sono note più o meno a tutti. Fiumi di inchiostro hanno riempito i giornali, animato dibattiti e trasmissioni televisive, ma il risultato è che il nuovo simbolo del ciclismo se ne era andato per sempre in quella maniera triste, come sa essere talvolta il mare d’inverno.
Il rapporto con Brescia
Ma pochi forse sanno che il romagnolo aveva un profondo rapporto con Brescia, vuoi perché i suoi direttori sportivi di riferimento erano bresciani (Beppe Martinelli e Davide Boifava) al pari di alcuni dei suoi compagni più fidati alla Mercatone come Marco Velo ed Enrico Zaina. Proprio dalle loro parole ricostruiamo un ricordo del Pirata.
Le parole di Martinelli, il ds

Per anni è stato il regista in ammiraglia, il suo direttore sportivo. Con lui ha iniziato una carriera da vincente. «A Pantani devo tutto, la mia carriera da direttore sportivo è iniziata con lui. Ripensare a lui evoca due sentimenti contrastanti: da un lato la gratitudine per l’immensa gioia che mi ha dato, il privilegio di aver guidato un mito del ciclismo in ammiraglia, mi ha fatto piangere dalla gioia, dall’altro il grande vuoto che ha lasciato. Nessuno come lui nell’epoca moderna ha fatto tanto per la popolarità del ciclismo. Ho guidato dopo di lui tanti altri campioni, ma quando giravo con l’ammiraglia della Mercatone Uno tutti la riconoscevano come la squadra di Pantani. Le emozioni che ha regalato agli italiani e non solo sono uniche. Basta dire che ogni qualvolta si parla di una salita o di una impresa in montagna salta fuori il suo nome. Anche al Tour quando si parla di miti italiani è Coppi o Pantani»
Ripensando a quel giorno di vent’anni fa, che effetto le ha fatto sapere della sua morte? «Lo ricordo come fosse ieri, era un sabato sera, ero seduto sul divano, stavo guardando le partite di calcio quando ricevetti una telefonata da un amico di Marco. Restai letteralmente senza parole e mi senti sprofondare in una grande tristezza».
La sua morte prematura ha contribuito a farne un mito? «In parte sì, ma la sua fine poco chiara in circostanze che oserei definire quantomeno torbide, non toglie il fatto che le imprese che ha compiuto, il suo modo di correre e fare spettacolo resterà per sempre indelebile nella memoria di chi lo ha seguito, anche solo per televisione».
Il ricordo di Boifava, il manager

Gli occhi più lucidi quella maledetta sera di vent’anni fa li ha avuti probabilmente lui, Davide Boifava, il condottiero della Carrera che fece esordire undici anni prima nel professionismo quel ragazzo romagnolo, sfacciato come certi suoi attacchi in salita e sfrontato a tal punto da affermare negli uffici di Ponte San Marco, intento a firmare il suo primo contratto di lavoro: «Guardate che l’affare non lo faccio io, lo fate voi».
«Purtroppo vent’anni ci riportano a quella vicenda triste che è stata la fine di Marco - racconta Boifava - mi resta il piacere e l’onore di averlo avuto nella mia squadra. Lui correva con le nostre bici alla Giacobazzi da dilettante e vedeva nella Carrera un team simbolo. Con lui avevo uno splendido rapporto, gli volevo bene come a un figlio. Quando, dopo l’incidente alla Milano Torino si chiuse l’esperienza della Carrera, lui la interpretò come un tradimento ma io gli spiegai bene la situazione. Venni poi chiamato da Cenni alla Mercatone Uno nel 2003 per tentare di rilanciarlo. Quando mi resi conto della situazione, riuscimmo a farlo ricoverare in una clinica di Padova per disintossicarsi, ma appena la notizia trapelò, la famiglia venne a prenderlo e di lui non seppi più nulla fino a quella terribile sera. Manca tanto a tutti noi e all’intero mondo del ciclismo. Tuttavia posso dirlo con franchezza? Con quel suo carattere così forte e determinato mai, ripeto mai, mi sarei aspettato quella fine incredibile. In qualche modo il suicidio, se tale è stato, non rientrava minimamente nei suoi pensieri».
Restano indelebili i ricordi delle sue imprese. «È uno dei sette grandi capaci di fare la doppietta Giro e Tour, l’ultimo nella storia del ciclismo a riuscirsi per ora e sono passati quasi trent’anni. Qualcosa vorrà pur dire. Inoltre possiamo dire che nessuno dava spettacolo in salita quanto lui. Ho guidato in ammiraglia tanti campioni, altri li ho affrontati da corridore, ma uno come Marco Pantani non si è mai visto e probabilmente mai si vedrà. Almeno io non lo vedrò e forse il ciclismo italiano ha perso il suo ultimo mito».
L’affetto di Velo, il compagno
Sono passati vent’anni dalla scomparsa di Pantani ma per Marco Velo che nelle stagioni gloriose di fine anni Novanta alla Mercatone Uno ha accompagnato Marco nei suoi trionfi «venti anni o dieci o cinque, cambia poco, mi manca, ma soprattutto manca tanto al ciclismo un personaggio del calibro di Pantani. Lui rappresentava quello che oggi vale Sinner per il tennis e lo sport italiano».
Al netto di tutte le vicende delle quali si è occupata a lungo la magistratura, la sua morte prematura l’ha proiettato nel mito? E se fosse vivo ancora oggi avrebbe rappresentato lo stesso un mito per il ciclismo? «Marco aveva un carisma unico che non ho trovato in nessun altro sportivo. Avrebbe vinto ancora tanto e una volta smesso di correre sarebbe rimasto un simbolo del ciclismo. Aveva l’intelligenza per adattarsi, avrebbe potuto ricoprire qualsiasi ruolo».
Alla Mercatone Uno ciascuno dei suoi gregari aveva un soprannome. È vero che lei era soprannominata Beautiful? «Sì, perché mi vedevano alto bello e giovane e quindi mi hanno chiamato come la soap opera popolare di quegli anni. Ma il fatto dei nomi in squadra la dice lunga sul carattere di Marco che sapeva fare gruppo. Oggi le squadre vanno alle Canarie al caldo per i primi raduni, noi invece andavamo a Campiglio (ironia della sorte nella località dove è iniziato il suo declino ndr.) sulla neve a fare quello che oggi si chiama team building, ovvero costruzione di un gruppo e Marco era un uomo che amava circondarsi di compagni e amici fidati».
Qual è il suo ricordo più bello legato al rapporto con Marco? «Ritorno con commozione alla tappa di Montecampione che gli spianò la strada alla vittoria del Giro nel 1998. Lo avevo pilotato nelle prime rampe della salita prima che lanciasse l’attacco. Me lo ritrovo vincitore sul palco d’arrivo. Taglio il traguardo proprio nel momento in cui inizia la cerimonia di premiazione. Marco sta per salire sul palco, mi vede, lascia il cerimoniale, scende di corsa e corre ad abbracciarmi dicendomi: quello che ho fatto oggi è anche merito tuo! E io ho pianto dalla gioia».
La nostalgia di Zaina, l’amico

Il ricordo di Marco brucia ancora dentro l’anima di chi gli ha voluto bene, ha condiviso le stanze di hotel e dei ritiri, tanti molti belli e alcuni molto tristi e drammatici. Per Enrico Zaina ricordare Pantani è una fitta al cuore: «Con la scomparsa di Marco abbiamo perso tutti. Hanno voluto piegarlo, anzi annientarlo e il mondo del ciclismo, troppo diviso al suo interno, non ha saputo proteggerlo, non immaginando forse che tutelare lui significava tutelare tutto il nostro mondo. Perché era un simbolo di questo sport e forse ha avuto il torto di avere troppo successo. Ma se Marco aveva tantissimi estimatori tra il pubblico di appassionati, in gruppo aveva pochi veri amici. Dopo la sua scomparsa in molti si sono detti suoi amici, ma non era vero» - spiega con amarezza Enrico Zaina che è stato suo compagno di squadra nella stagione forse più delicata per lui, il 1999, l’anno dei fatti di Campiglio. Alla Mercatone Zaina era soprannominato «tribüla», in dialetto significa indaffarato. «Il soprannome lo devo in parte a mio padre che era sempre indaffarato a fare qualcosa e io mi mettevo invece sempre a disposizione di Marco (nonostante un secondo posto al Giro del 1996 ndr.). Lui possedeva un grande karma, e amava circondarsi di persone fidate, ma quando all’inizio degli anni Duemila venne fuori il problema della dipendenza da cocaina, ci fu un fuggi fuggi generale. Io pregai subito i suoi dirigenti e manager di affrontare il problema alla radice, l’atleta era perso ormai, ma l’uomo si poteva ancora salvare. Non fui ascoltato, poi stare in squadra con lui iniziò a diventare pesante, fra continue perquisizioni dei Nas e avvisi a comparire in tribunale come testimoni, ci facevano sentire braccati come delinquenti. Ci fu un accanimento senza precedenti nei suoi confronti. A fare traboccare il vaso poi le incomprensioni con Martinelli sulle tattiche di gara quando preferì Garzelli al sottoscritto al Giro. Alla fine non me la sentito di continuare così e mollai tutto, non potevo sopportare di vedere affondare Marco giorno per giorno. Sembra ieri quando festeggiavamo anche nel Bresciano le sue vittorie, invece sono passati vent’anni». Di ricordi felici e giorni amari.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato
@Sport
Calcio, basket, pallavolo, rugby, pallanuoto e tanto altro... Storie di sport, di sfide, di tifo. Biancoblù e non solo.
