Medio Oriente, la stabilità negata dopo 15 anni di sollevazioni tradite

La sera del 31 dicembre 1977, nel salone delle feste della residenza imperiale di Niavaran a Teheran, il presidente Carter, brindando al nuovo anno, levò il calice elogiando lo Shah perché, grazie alla sua grande leadership, l’Iran era «un’isola di stabilità in una delle zone più turbolente del mondo». Fu questa una delle frasi più tragicamente retrospettive della diplomazia statunitense in Medio Oriente: la settimana successiva prenderanno infatti l’abbrivio le proteste che porteranno, nel 1979, alla caduta del regime monarchico.
Le potenze regionali
Oggi i pilastri della stabilità dell’area sono ancora le monarchie del Golfo, grandi potentati economici le cui politiche non sono sempre allineate agli standard internazionali in materia di diritti. Tuttavia la Realpolitik, soprattutto statunitense, abbandonato il mantra dell’esportazione della democrazia tanto cara ai neoconservatori repubblicani dell’era Bush, fa sempre più leva sul loro appoggio per espandere la stabilità, prerequisito essenziale non per consolidare i diritti, ma gli affari.

È la diplomazia dei grandi capitali, incarnata dal Vision 2030 di Riyadh, il programma di diversificazione economica per rendere il Regno il riferimento regionale per investimenti, logistica e turismo internazionale, sulla base del quale Washington si inserisce cercando di gestire i flussi di energia, di dati e di armamenti. L’accordo di difesa siglato a novembre tra gli Usa e l’Arabia Saudita segna il ritorno a una dottrina di protezione in cambio di allineamento geoeconomico, un tentativo di arginare l’espansionismo cinese che vede nel Medio Oriente il suo snodo logistico cruciale attraverso la Nuova Via della Seta.
Tuttavia è un equilibrio precario, minacciato dalla volatilità dei prezzi energetici e da una crisi climatica che sta rendendo intere aree della regione a rischio di inabitabilità, trasformando la scarsità idrica nel nuovo terreno di frizione geopolitica tra Turchia, Iraq e Siria.
L’isolamento iraniano
Enorme mercato per la ricostruzione che varrebbe oltre 200 miliardi di dollari, la nuova Siria di al Jolani, teatro della recrudescenza delle tensioni settarie, non ha solo ridisegnato i confini del potere interno, ma ha reciso i gangli vitali dell’influenza iraniana verso il Mediterraneo, lasciando Teheran in una solitudine strategica interrotta solo da una deterrenza sempre più rischiosa, come ha dimostrato il confronto diretto con Israele prima, e con Washington poi.
Israele e il disegno Usa
Se per gli Ayatollah la guerra è stata l’occasione per intensificare arresti, controlli e repressione di un dissenso che pur nel silenzio delle notizie continua, per Gerusalemme è stata solo uno dei sette fronti verso i quali ha concentrato la sua potenza di fuoco per conseguire gli obiettivi dichiarati: eliminare le capacità militari e di governo di Hezbollah e Hamas, annientare le minacce degli attori non statuali fedeli all’Iran.
Un passo indispensabile, questo, per portare a compimento la Fase Due del piano per Gaza, che stenta a decollare, e il progetto dei Patti di Abramo varato da Trump durante la sua prima Amministrazione, il cui ultimo tassello, la pace tra Israele e i sauditi, coronerebbe la strategia statunitense di integrazione regionale: un sistema in cui normalizzazione, investimenti e garanzie di sicurezza ridurrebbero i costi di presenza diretta americana, senza intaccarne i benefici.
L’Egitto, che continua a sopravvivere a sé stesso attraverso l’autoritarismo di al-Sisi e i finanziamenti di Riyadh ne è sponsor e garante, così come lo è Netanyahu, sebbene sul suo capo penda la spada di Damocle del processo penale per corruzione in Israele e il mandato di arresto della Corte Penale Internazionale.
Metamorfosi continua
La storia del Medio Oriente sembra condannata a oscillare tra il desiderio di ordine e la realtà di una metamorfosi continua. Come quel brindisi di Carter a Teheran, ogni proclama di stabilità oggi appare prematuro, se non illusorio.

La regione non è un’isola, né può essere stabilizzata da un singolo attore o da un unico accordo commerciale. Il 2025 ci lascia in eredità la consapevolezza che l’architettura del potere non può essere materia esclusiva delle cancellerie internazionali, ma deve saper rispondere alle istanze di popolazioni che, dopo un quindicennio di sollevazioni tradite, guerre civili e sogni infranti, dalle macerie di Aleppo, di Gaza, alle strade di Gerusalemme e Teheran, chiedono una normalità che la sola pura strategia militare o alta finanza non sono in grado di offrire.
Se non sapremo leggere i segnali sotto la superficie rischiamo di trovarci, ancora una volta, a brindare a una pace che esiste solo nei saloni delle feste, mentre fuori il mondo sta già cambiando volto.
Michele Brunelli - Docente di Storia e Geopolitica dell’Asia contemporanea, UniBg
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