Zelensky fa i conti con la dura realtà

«Il Re è nudo». Tra i circoli dell’intelligence e degli analisti militari l’impossibilità di riconquistare militarmente i territori del Donbass e della Crimea da parte dell’esercito ucraino è sempre stata una realtà incontrovertibile.
Troppo ampio il divario di forze sul campo, la disponibilità di uomini da lanciare nella battaglia come carne da cannone, la demografia e la composizione linguistica di alcuni di quei territori, talvolta artificiosamente modificata e soprattutto la capacità di sostenere economicamente il conflitto da parte russa, sottoposta ad un embargo che solo dall’Occidente, in una visione eurocentrica ed americanocentrica veniva impropriamente definito «internazionale», con moltissimi Paesi che continuavano a commerciare con Mosca, primi fra tutti Cina e India che nei primi dieci mesi del 2024 hanno acquistato il 77% della produzione petrolifera russa.
Una realtà da un punto di vista militare pressoché indiscutibile, ma politicamente indichiarabile. Almeno fino a ieri, quando lo stesso Re ha preso coscienza di non avere più nulla indosso e ha asserito che l’opzione militare per rientrare in possesso dei territori, perduti da oltre un decennio, non è più percorribile ma, eventualmente, lo potrà fare la diplomazia.
Brussels. An important and very substantive meeting with NATO Secretary General Mark Rutte. Our talks focused on strengthening air defense for Ukraine and ensuring the reliability of the peace we are collectively working to achieve.
— Volodymyr Zelenskyy / Володимир Зеленський (@ZelenskyyUa) December 18, 2024
We thank Mark, NATO Secretary General, and all… pic.twitter.com/F4kroZ2ldO
Si tratta di un’apertura significativa verso un’ipotesi di colloqui di pace dei quali non si parlava più da tempo. Almeno dai primi mesi di guerra. È vero che la diplomazia cercò di organizzare alcuni vertici, assai eterei nella sostanza e strutturalmente inconcludenti, visto che al tavolo delle trattative mancava una controparte fondamentale: quella di chi il conflitto l’aveva scatenato. Ma ancora fino allo scorso mese di febbraio, Zelensky, alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco si diceva certo che Putin sarebbe stato prossimo alla sconfitta.
In questi mesi lo scenario è cambiato radicalmente e non solo quello militare del fronte orientale, che ha visto un massivo afflusso di truppe nord-coreane e una ripresa dell’iniziativa di Mosca, che sta avendo successo, nonostante l’applicazione di una dottrina ormai obsoleta di derivazione sovietica, ma soprattutto è il fronte politico occidentale ad aver subito un rivolgimento importante. Ancor prima di entrare fisicamente alla Casa Bianca il futuro 47° Presidente sta già influenzando la postura di alcuni scacchieri regionali, lasciando intravedere possibili evoluzioni. E oltre a quello mediorientale, della quale si è iniziato a vociferare su una possibile apertura israeliana, lo scenario ucraino è rientrato in maniera preponderante nel dibattito elettorale statunitense.
Sebbene smentito dal portavoce di Trump, già nei mesi passati uno dei suoi collaboratori si era spinto a dichiarare che l’obiettivo politico di Kiev sarebbe dovuto essere non la riconquista della Crimea, da considerarsi ormai perduta, ma «una visione realistica della pace»: un richiamo da leggersi alla luce dell’impossibilità di ritornare a uno status quo ex ante, e un invito, se non un vero e proprio ammonimento, a fare un bagno di realtà.
Lo spauracchio, sempre più concreto di perdere gli aiuti militari statunitensi una volta che Donald Trump si sarà insediato a Washington, l’inconsistenza dell’Unione Europea che da tempo, anche sulla questione ucraina, ha mostrato profonde spaccature, le crisi governative in Germania e in Francia che instillano il dubbio sulla tenuta del gruppo dei paesi favorevoli al proseguimento del sostegno militare all’Ucraina, hanno probabilmente indotto Zelensky ad annunciare il cambiamento di linea sulla Crimea, che sino a ieri era di decisa riacquisizione della sovranità nazionale sull’intero territorio. Significativo è stata anche la rete televisiva scelta: la Fox News, politicamente vicina al presidente-eletto, quasi a voler inviare un messaggio diretto di buona volontà.
Due altri i possibili fattori: uno interno e uno di lungo periodo. Il primo fa riferimento al livello di consenso politico nazionale che, dopo oltre mille giorni di combattimenti, è ai minimi storici. Una popolazione comprensibilmente stremata, nonostante abbia dato prova di una indicibile fermezza, forza e determinazione è stanca della guerra e delle sue privazioni e anche da un punto di vista più teorico e politologico, ma che comunque attiene sempre al consenso, la decisione di non tenere le elezioni presidenziali a causa dello stato di guerra e della legge marziale ha sollevato questioni delicate sulla posizione di Zelensky.
Il secondo attiene alla storia recente della compagine regionale, la quale ha visto una particolare pervicacia da parte russa di rioccupare sia con le armi del soft power, sia con quelle dell’hard power – le forze armate – alcune aree di quei territori che la Russia di Putin considera il suo «Estero Vicino»: tra queste, in particolare, le aree georgiane dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, prese dal 2008, così come la Transnistria, occupata da Mosca dal 1992, territorio de facto indipendente sotto tutela russa, ma de iure dipendente dalla Moldavia. I decenni di dominio russo marcano la non volontà internazionale di restituire ai rispettivi governi legittimi la sovranità su quei territori.
L’Occidente, per primo, non vuole morire per Sukhumi, Tskhinvali o Tiraspol, così come accadeva per Danzica nel 1938. Tutto ciò ha così indotto Zelensky, il re nudo, ad affermare che non si può più morire per la Crimea.
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