Trump e i sovranisti amano la geografia

«Il mare davanti al Messico da oggi si chiamerà Golfo d’America... la Manica diventerà lo George Washington Channel e il monte Denali sarà ribattezzato Monte McKinley». Donald Trump, che a forza di citarla la Bibbia deve averla pure sfogliata, sa che per l’Antico testamento dare il nome significava rivendicare diritto e potere.
Lo spiega la Genesi: «Adamo ebbe il compito di assegnare i nomi agli animali» e così diventava padrone del mondo. Dal cambiare il nome a rivendicarne il dominio, il passo è breve: basta dire che il presidente del Canada diventerà il governatore del cinquantunesimo degli Stati Uniti, o che la Groenlandia è più vicina agli Usa che alla Danimarca. E tutte le mappe vengono stravolte. Le mappe, appunto: lo strumento essenziale della nostra conoscenza del mondo.
Si era pensato che non servissero più le carte geografiche, e infatti le abbiamo tolte dalle pareti delle nostre scuole. Si pensava bastassero Google, il navigatore e i gps. Invece non stavamo cogliendo la contraddizione in termini del nostro ragionamento.
Infatti se Google Maps e similari sono le app universalmente più usate sugli smartphone, non significa che la conoscenza geografica è inutile o superata, semmai si dimostra che la tecnologia si adegua e usa a modo suo, potenziando gli effetti, le vecchie carte geografiche.
Gli studi delle neuroscienze ci hanno rivelato che creare mappe è il metodo attraverso il quale noi conosciamo il mondo. Il cervello crea mappe per catalogare quel che percepisce nella propria esperienza. Poi sale di livello ed elabora mappe di mappe, per prevedere e provvedere; in estrema sintesi così si sviluppa il pensiero umano.
La geografia non sfugge a questa logica: anzi ne ha fornito il nome e il concetto, quello della rappresentazione essenziale ed efficace di un territorio, di un contesto, per meglio conoscerlo ed agire di conseguenza. Basta entrare in qualsiasi palazzo del potere, dal Vaticano al Cremlino, per constatare quale importanza avessero (abbiano) mappe, carte e mappamondi.
President Trump Achieves More in 100 hours Than Any President in 100 Days
— The White House (@WhiteHouse) January 24, 2025
🇺🇸 300+ executive actions taken
🇺🇸 $1.1T+ invested in U.S
🇺🇸 Border crossings plummeted
🇺🇸 Illegal immigrant rapists, gang members, and even a suspected terrorist arrested
🇺🇸 Common sense is restored pic.twitter.com/r1KZt4D5bz
Clima e orografia, materie prime e fonti energetiche, collegamenti e distanze, usanze e religioni... Le mappe sono preziose per comprendere la storia, l’economia e la politica almeno quanto la geografia fisica. Anzi, le mappe delimitano i contorni della politica e svelano che la coerenza e il principio di realtà non sono categorie che le appartengono.
Basterebbero due esempi di stretta attualità: la Groenlandia e il Medio Oriente. Si può tranquillamente sostenere che il cambiamento climatico non esiste, è un bluff se non proprio una truffa, e poi sfruttarne gli effetti concreti per fare affari e avanzare pretese: è quel che sta facendo Trump con la Groenlandia. Oppure continuare a citare il progetto di «due popoli due stati» per Israele e Palestina, quando basterebbe dare un’occhiata ad una carta geografica di quei territori per comprendere come questa ipotesi sia inapplicabile per gli insediamenti sparsi dei coloni ebrei.
Lo stretto nesso tra geografia e politica si può cogliere proprio in questi giorni in una mostra allestita al Palazzo Ducale di Genova: «Linee spezzate, vecchi e nuovi confini» è il titolo della rassegna promossa da Limes per spiegare quale sia «L’Ordine del Caos». Sguardi che illuminano su Libia e Yemen, Siria e Georgia, Ucraina e Iraq, per spiegare quanto i conflitti in atto facciano emergere linee di frattura antiche, anche se in forme diverse.
I nomi contano. Basterebbe pensare ai Balcani e alle denominazioni che riportano all’attualità contrapposizioni secolari: un nome per tutti, la Macedonia e il contenzioso con la Grecia. Mentre la Turchia di Erdogan coltiva sogni di Impero Ottomano. Quella stessa Turchia che s’inalbera ogni volta vede scritto Kurdistan su una cartina. Beghe che covano nel tempo: come quella tra Gran Bretagna e Argentina per le Falkland/Malvinas. Contano persino le sfumature: dire Cisgiordania, oppure West Bank per definire la sponda occidentale del Giordano equivale ad una presa di posizione. Anche dove non tira aria di guerra è così: Gorizia e Nova Gorica sono unite come Capitale europea della cultura del 2025, ma non si mettono d’accordo sulla segnaletica.
Il nome rivela la pretesa. Talvolta ci si accontenta di un colore uguale sulle carte. Poi alle denominazioni si fanno seguire i fatti. Così è stato per la Russia con la Crimea e l’Ucraina, per la Turchia con la Siria settentrionale. Le pretese si annidano, prima di manifestarsi: Pechino allunga l’onda del Mar Cinese Meridionale fino a Borneo e Filippine. Enclave linguistiche ed etniche fanno il resto, un po’ ovunque sul globo.
C’è una logica tremenda nelle mappe che si delineano in questi giorni: anche se Trump guadagnasse solo l’imposizione del nome che a lui piace su Google Maps, già avrebbe (un poco almeno) invaso quelle terre nel nostro immaginario globale. Un tempo si diceva che la geografia era la disciplina prediletta dei sovrani, oggi lo è per i sovranisti. Occhio alle mappe.
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