Netanyahu alla Casa Bianca: Gaza e Iran al centro del vertice

Benjamin Netanyahu conosce bene i corridoi e le stanze della Casa Bianca. E soprattutto lo Studio Ovale, almeno per esserci stato quattordici volte durante la sua intensa vita politica. L’ultima, in ordine di tempo il 4 febbraio, rendendolo il primo leader straniero a compiere una visita ufficiale al neo eletto presidente.
Temi discussi
Due gli ordini dei temi discussi. Un primo gruppo su questioni di breve periodo, assai concrete e contingenti al divenire della situazione sul campo, come la condizione degli ultimi venti ostaggi ancora nelle mani di Hamas, il ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia e l’effettività della tregua, che dovrebbe entrare a breve in una nuova fase.
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— The White House (@WhiteHouse) February 5, 2025
Il secondo su problematiche sostanziali, strategiche e di lungo periodo, che contemplano la parte più politica e altresì complessa: la gestione della fase postbellica e, in prospettiva, il futuro assetto della regione, nella quale si trovano a convergere, spesso fino ad ora anche a divergere, interessi nazionali di molteplici attori, tra cui l’Egitto, l’Arabia Saudita, i paesi del Golfo, l’Iran fra i tanti.
Il futuro di Gaza
Sul futuro di Gaza si gioca la stabilità del Medio Oriente, tanto cara a Mohammad bin Salman, a difesa dei propri interessi economici e quindi anche il futuro internazionale dell’Iran, i veri due convitati di pietra all’interno dello Studio Ovale, insieme a Netanyahu e Trump.
Ed è per ciò che Gaza è una delle chiavi di volta del Nuovo Ordine mondiale trumpiano, che da un lato si fa isolazionista (ritirandosi dall’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e dal patto negoziato all’Ocse per tassare le grandi multinazionali), dall’altro interventista, lasciando intendere di voler trasformare la Striscia di Gaza nella nuova Riviera del Mediterraneo, dopo che essa, come egli stesso ha dichiarato: «Sarà consegnata agli Stati Uniti da Israele alla fine dei combattimenti e dopo che i Palestinesi saranno reinsediati in comunità molto più sicure e belle, con case nuove e moderne, nella regione».
Hamas e gli equilibri
Si è parlato giornalisticamente della costruzione di una Mar-a-Gaza o Gaz-a-Lago, Gazaland, Make Gaza Great Again, come evocava Trump e il suo epigono Musk per l’Europa. Talvolta la satira sa essere più realista della realtà. Sicuramente più cruda.
Anche perché il piano di Trump non tiene conto di una serie di fattori. Innanzitutto secondo il diritto internazionale, i tentativi di trasferimento forzato di popolazioni dai territori occupati sono severamente vietati. Inoltre fumose sono le basi secondo le quali gli Usa prenderebbero il controllo della Striscia, un territorio che secondo gli Accordi di Oslo del 1993 sono parte dei Territori Palestinesi, insieme alla Cisgiordania, e posti sotto la sovranità dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), ma che dal 2007 è governata da Hamas.
L’ipotesi poi di assumere il controllo di Gaza coinvolgerebbe Washington nel conflitto israelo-palestinese in un modo che i presidenti Usa, sin dai tempi di Truman, hanno cercato in tutti i modi di evitare, preferendo la via del sostegno militare e diplomatico a Israele, fornendo armi e tentando di mediare accordi di pace.
La proposta di Trump, peraltro non originale, poiché elaborata per la prima volta l’anno scorso da suo genero e consigliere Jared Kushner, quando a Harvard definì «molto preziosa la proprietà del lungomare di Gaza», sembrerebbe avere una prospettiva meramente economica e non ancora politica, elemento veramente dirimente e risolutivo della questione mediorientale. La sua stessa opposizione alla costruzione di uno Stato potrebbe compromettere il suo intento di mediare un accordo con l’Arabia Saudita per la normalizzazione delle relazioni con Israele.
Iran e la strategia USA
Certo è che dichiarare la cessione da parte di Israele di Gaza ha per Netanyahu un fortissimo significato politico, poiché gli consente di sancire de facto la sconfitta definitiva di Hamas e di escluderlo da ogni ruolo futuro sul territorio, esattamente come vogliono la maggior parte degli Stati arabi. Tuttavia questa presa di posizione offre il fianco proprio ad Hamas, il quale agitando lo spirito nazionalistico, intriso del più puro e bieco islamismo, potrebbe consolidare le diverse frange combattenti e utilizzare ancora una volta la retorica dell’unità dinanzi al nemico comune, mostrandosi agli occhi dei Palestinesi, disillusi anche dall’Anp, di essere l’unico elemento salvifico.
Significativa è stata agli inizi del mese la visita di membri di Hamas a Mosca e l’incontro a Doha con il Ministro degli esteri iraniano, alla ricerca di una qualche forma di legittimazione e sostegno internazionali.
Il secondo tema strategico discusso ha riguardato la postura da tenere verso l’Iran, se proseguire nella politica di massima pressione, come fu durante il suo primo mandato, facendo leva sul pericolo nucleare o se invece intavolare un dialogo franco e opportunista, come solo Trump saprebbe fare, sebbene ciò presupponga di saper cogliere i sottili messaggi diplomatici lanciati da Teheran, che ha già mostrato segni di interesse a negoziare proprio sul suo programma nucleare.
Sarebbe questa una carta in più per la promozione della stabilità regionale e la sottrazione di un potenziale centro di potere nelle mani di Hamas. Certo che ciò scontenterebbe sicuramente Netanyahu, che, come in molti hanno osservato, ha lasciato la Casa Bianca tra gli uomini più felici del pianeta. Forse non troppo cosciente che questa sarebbe stata sì la sua quattordicesima volta, ma probabilmente anche l’ultima.
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