Trump imperialista, ultima chiamata per l’Europa

Col nuovo presidente americano assistiamo a qualcosa d’inedito, nell’asprezza delle richieste statunitensi e nella loro ostentazione
Donald Trump - Foto Epa © www.giornaledibrescia.it
Donald Trump - Foto Epa © www.giornaledibrescia.it
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Fanno ovviamente scalpore le reiterate dichiarazioni di Donald Trump sulla volontà degli Usa di annettere la Groenlandia. Così come fa scalpore la notizia, data per primo dal Financial Times, della sua ruvida telefonata con la premier danese Mette Frederiksen, durante la quale avrebbe posto una sorta di aut-aut, minacciando azioni punitive contro la Danimarca qualora non acconsentisse a questa annessione.

Il linguaggio e i progetti scopertamente neoimperialisti del presidente statunitense colpiscono e segnalano un salto di qualità rispetto alla sua prima amministrazione. E sembrano avere, oggi anche più di allora, l’Europa come loro bersaglio. Dalla questione del contributo dei membri europei della Nato a quella dei progetti regolatori del big tech Usa da parte dell’Unione Europea, dal commercio e il surplus europeo alla richiesta di collaborare maggiormente contro la Cina, sono diversi i dossier rispetto ai quali sono già scattate le minacce e le pressioni dell’amministrazione Trump.

Si tratta di dossier e frizioni, la Nato su tutti, non nuovi e che hanno segnato la storia delle relazioni transatlantiche. Ma rispetto ai quali assistiamo oggi a qualcosa d’inedito, nell’asprezza delle richieste statunitensi e nella loro ostentazione, che a volte sembra mirare deliberatamente a umiliare la controparte. Quel che si prefigura pare essere davvero una ultima chiamata per l’Europa. Una capitolazione senza resistenza, o significative contropartite, segnerebbe il tramonto del progetto europeo e aprirebbe le porte a una crisi dell’Ue dalla quale si fatica a immaginare una qualche uscita.

Perché storicamente queste tensioni transatlantiche finiscono quasi sempre per lacerare l’Europa più che per compattarla. E perché ci troviamo in un tornante oggettivamente nuovo, dove subire senza reagire le umiliazioni trumpiane - come è finora avvenuto - rischia di erodere la legittimità già debole delle élites europee, a partire dalla Commissione e da chi la guida.

È questo il primo dei tre punti che meritano di essere sottolineati per meglio comprendere i termini della questione e la comparazione con il passato. Le richieste di Trump si connotano per la inciviltà della forma e la radicalità dei contenuti. Contestare la sovranità di un territorio associato della Ue o minacciare il governo di un suo Paese vuol dire portare la disputa in un territorio nuovo e ignoto. Dove le vecchie formule del passato non valgono più e il silenzio appare una dimostrazione di debolezza e inettitudine.

Il secondo elemento di rottura in questa nuova crisi transatlantica deriva dal fatto che in Europa vi sono oggi numerosi governi e forze politiche schierati a fianco di Trump. Che hanno funto da modello per la nuova Destra americana, è il caso dell’Ungheria di Orban; che cercano di riprodurre in scala lessico e proposte del Presidente statunitense; che in ultimo condividono il suo obiettivo d’indebolire e finanche scardinare l’Unione Europea (Trump, a volte lo dimentichiamo, fu entusiasta sostenitore della Brexit).

Terzo e ultimo, le forze e i Paesi che potrebbero oggi opporvisi attraversano essi stessi una fase di grande crisi e debolezza. Ciò è particolarmente verso per quell’asse «carolingio» - franco-tedesco - che ha storicamente guidato e difeso il progetto europeo e che ancor oggi esprime i due soggetti superiori nella Ue, in ambito securitario (la Francia) ed economico (la Germania).

Fu questo asse, ad esempio, che poco più di vent’anni fa si oppose con fermezza agli Stati Uniti durante la disputa che precedette lo sciagurato intervento in Iraq. Oggi Parigi e Berlino non sembrano più in grado di adempiere a tale compito. E ciò aggiunge un ultimo, cruciale elemento di fragilità ad un’Europa per il momento passiva, troppo passiva, di fronte all’urto del ciclone Trump.

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