Cosa c’è dietro le minacce di Trump a Panama e Danimarca

Caso mai ci fossimo dimenticati di cosa Trump possa dire e fare, ci ha pensato il prossimo Presidente a ricordarcelo. Minacce di riportare manu militari il canale di Panama sotto controllo statunitense; intimazioni alla Danimarca affinché ceda agli Usa la Groenlandia; offese varie ai vicini nordamericani, Canada e Messico. C’è una logica dietro a queste intemperanze verbali? E dobbiamo prenderle sul serio o, come invitano taluni commentatori, è meglio non darvi invece troppo peso? La risposta a entrambe le domande è positiva. Sì, vi è una logica. E sì, dobbiamo prenderle sul serio, come è necessario fare quando parla il Presidente della principale potenza del sistema internazionale.
Perché le sue parole, anche quando radicali e fuori luogo, pesano. E perché queste parole contribuiscono nel bene e nel male a definire i termini del discorso pubblico e politico: il perimetro di ciò che è dicibile o semplicemente immaginabile. Quale è la logica che sottostà invece a queste parole? Almeno tre elementi vi convergono nel definirla. Elementi che, combinati, definiscono una visione di politica estera nella quale convergono iper-nazionalismo, un realismo molto rozzo e binario, e un imperialismo cui Trump due giorni fa ha dato voce come forse mai prima.
Il primo di questi elementi è tutto strategico. In parziale continuità con l’amministrazione Biden, anche quella entrante di Trump ritiene che sia la sfida di potenza con la Cina a definire presente e futuro dell’egemonia statunitense e dell’ordine internazionale. Le risorse minerarie della Groenlandia, a partire dalle sue terre rare, e le nuove rotte navali nell’Artico hanno di molto accresciuto la centralità strategica della regione, peraltro da sempre importante per gli Usa, che in passato cercarono invano di acquistarla e poi siglarono nel 1951 un accordo bilaterale con la Danimarca che gli garantiva privilegi quasi-imperiali, a partire dalla base di Thule, preservati sino a oggi. Quanto a Panama, dopo l’apertura di relazioni diplomatiche con la Repubblica Popolare Cinese nel 2017, sono di molto aumentati gli investimenti cinesi nel Paese, soprattutto in infrastrutture, in linea con la politica perseguita dalla Cina in gran parte dell’America Latina. Una penetrazione economica, quella cinese, che preoccupa gli Usa e contro cui si è scagliato più volte il prossimo segretario di Stato, il Senatore della Florida Marco Rubio.
Alla matrice strategica delle dichiarazioni di Trump va aggiunta quella politica. Quelle del futuro Presidente sono pressioni ostentate su soggetti e alleati degli Usa con cui si spera di forzarli a fare delle concessioni, siano esse un impegno a modificare linea rispetto ai rapporti con la Cina (Panama, ma anche altri paesi del Centro e Sud America) o la concessione di ulteriori privilegi extra-territoriali in Groenlandia (la Danimarca e l’autonomo governo groenlandese).
Terzo e ultimo elemento: quello ideologico. Fatto appunto di realismo, nazionalismo e imperialismo. Il contesto internazionale viene presentato come un’arena anarchica e competitiva, in cui ogni attore massimizza i propri interessi a discapito di quelli degli altri. Dove i rapporti sono invariabilmente transazionali e contingenti, e non esistono alleanze permanenti o principi che accomunano e legano. E dove si può oggi esprimere, e finanche esibire, una visione e degli intenti quasi neocoloniali come sarebbe stato inimmaginabile fare solo pochi anni fa.
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